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rispetto vita privata e familiare e proibizione tortura - Sentenza 11 marzo 2014 relativa al ricorso n. 43575/09 Causa Salvatore Riina

Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 11 marzo 2014 - Ricorso n. 43575/09 - Causa Salvatore Riina c. Italia

dal sito web © Ministero della Giustizia, Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani, traduzione effettuata da Rita Carnevali, assistente linguistico. Revisione a cura della dott.ssa Martina Scantamburlo funzionario linguistico. Permission to re-publish this translation has been granted by the Italian Ministry of Justice for the sole purpose of its inclusion in the Court's database HUDOC.

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO
SECONDA SEZIONE
DECISIONE
Ricorso n. 43575/09 Salvatore Riina contro l'Italia

La Corte europea dei diritti dell'uomo (seconda sezione), riunita l'11 marzo 2014 in una camera composta da:
Işıl Karakaş, presidente,
Guido Raimondi,
András Sajó,
Nebojša Vučinić,
Helen Keller,
Egidijus Kūris,
Robert Spano, giudici,
e da Stanley Naismith, cancelliere di sezione,
Visto il ricorso sopra menzionato proposto il 5 agosto 2009,
Vista la decisione del 19 marzo 2013,
Viste le osservazioni proposte dal governo convenuto e quelle presentate in risposta dal ricorrente,
Dopo aver deliberato, emette la seguente decisione:

IN FATTO

Il ricorrente, sig. Salvatore Riina, è un cittadino italiano nato nel 1930. Egli sconta la pena nel carcere di Milano Opera. Dinanzi alla Corte è rappresentato dall'avvocato L. Bauccio del foro di Milano.
Il governo italiano («il Governo») è rappresentato dal suo agente, E. Spatafora.

A. Le circostanze del caso di specie

I fatti della causa, come sono stati esposti dalle parti, possono essere riassunti come segue.
Il ricorrente è stato condannato all'ergastolo per aver commesso reati molto gravi, tra altri associazione per delinquere di tipo mafioso e parecchi omicidi. All'epoca in cui è stato proposto il ricorso, a suo carico pendevano numerosi procedimenti penali.
Incarcerato dal 15 gennaio 1993, il ricorrente espone di essere stato sottoposto da allora al regime di detenzione speciale previsto dall'articolo 41 bis, comma 2, della legge sull'ordinamento penitenziario (di seguito la «legge n. 354 del 1975»). Modificata dalla legge n. 279 del 23 dicembre 2002, questa norma permette di sospendere, totalmente o parzialmente, l'applicazione del normale regime di detenzione qualora ragioni di ordine e sicurezza pubblica lo esigano.
Peraltro, il ricorrente è stato assegnato all'area riservata del carcere di Ascoli Piceno poi, dal 24 dicembre 2003, al carcere di Milano Opera.
Il Governo ha fatto sapere che tre videocamere sorvegliano la cella singola del ricorrente nel carcere di Milano Opera. Due di queste videocamere visualizzano la parte anteriore della cella che contiene un letto, un tavolo e una televisione. Un muretto nasconde la parte posteriore della cella, dove vi sono lavandino, gabinetto e doccia. Questa zona, che non è visibile dall'esterno della cella, è controllata da una terza videocamera che tuttavia non riprende la doccia. Le videocamere in questione trasmettono le immagini sullo schermo di 17 pollici della sala controllo. Lo schermo visualizza simultaneamente sette immagini con effetto mosaico: tre immagini mostrano cosa succede nella cella del ricorrente, le altre quattro mostrano le zone esterne alla cella (passaggi, sala per la socializzazione, sala per la videoconferenza). In questo modo si può vedere la sagoma del detenuto in dimensione ridotta ma sufficiente per consentire al personale penitenziario di rilevare delle anomalie (cadute, stato di ubriachezza) e, di conseguenza, di intervenire se necessario. Le immagini in questione sono trasferite su un supporto che viene conservato e che soltanto i giudici possono consultare (in quanto il personale che lavora al posto di controllo non può più rivedere le immagini).
Il ricorrente non ha presentato nessuna delle decisioni che applicano e prorogano il regime del 41bis. Soltanto cinque decisioni emesse dal tribunale di sorveglianza territorialmente competente sono versate al fascicolo. Da queste ultime risulta che il ricorrente ha più volte contestato il mantenimento del regime del 41bis tenuto conto soprattutto del suo stato di salute e che i suoi ricorsi sono stati tutti respinti (Riina c. Italia (dec.), n. 43575/09, §§ 8-11, 19 marzo 2013).
Dalla decisione del 16 ottobre 2003 del tribunale di sorveglianza di Ancona risulta che il ricorrente aveva anche lamentato la videosorveglianza del gabinetto della sua cella. Il tribunale non si pronunciò su questo motivo e respinse il ricorso. Il ricorrente non ricorse in cassazione.
Peraltro, dal fascicolo non risulta che il ricorrente abbia successivamente sollevato il motivo relativo alla videosorveglianza dinanzi ad un altro tribunale di sorveglianza.

B. Il diritto e la prassi interni pertinenti

Le restrizioni che derivano dall'articolo 41bis della legge n. 354 del 1975 e le regole in materia di assegnazione di un detenuto ad un'area riservata del carcere sono descritte nella sentenza Enea c. Italia ([GC], n. 74912/01, §§ 30-47, CEDU 1999).
L'articolo 1 della legge n. 354 del 1975 dispone che ogni misura volta a garantire l'ordine e la disciplina deve rispettare la dignità della persona. La videosorveglianza può essere disposta in base all'articolo 41bis comma quater, che permette di adottare misure di sicurezza volte ad evitare che il detenuto abbia contatti con l'ambiente criminale di origine o con altri detenuti appartenenti alla stessa organizzazione o ad una organizzazione alleata.
Peraltro, il regolamento di servizio del corpo di polizia penitenziaria (Decreto del Presidente della Repubblica n. 82/99, articolo 24) prevede la possibilità di sorvegliare costantemente i detenuti per assicurarsi che sia rispettato il regime di detenzione al quale gli interessati sono sottoposti.
Ai sensi della legge n. 354 del 1975, le restrizioni dei diritti fondamentali possono essere contestate, dinanzi al tribunale di sorveglianza territorialmente competente, dai detenuti sottoposti al regime detentivo del 41bis (articolo 41bis commi quinquies e sexties) e da quelli che sono sottoposti ad un particolare regime di sorveglianza (articolo 14ter della legge). Avverso le decisioni del tribunale di sorveglianza è possibile ricorrere per cassazione. Nella causa Lo Piccolo, la Corte di cassazione (Sez. I, decisione del 24 novembre 2009) si è pronunciata su un ricorso in cui l'interessato si era lamentato dinanzi al tribunale di sorveglianza della continua videosorveglianza della sua cella compreso il gabinetto. Dal momento che la decisione impugnata non era motivata su questo punto, l'interessato aveva presentato ricorso per cassazione. La Corte di cassazione ha ribadito che il motivo di ricorso relativo alla videosorveglianza in questione poteva essere esaminato dal punto di vista degli articoli 3 e 8 della Convenzione. Dal momento che si trattava di una misura molto intrusiva e che poteva avere conseguenze sullo stato psicologico del detenuto e dunque sulla sua salute, essa doveva essere giustificata da evidenziate e motivate necessità. Di conseguenza, la Corte di cassazione ha annullato la decisione impugnata ed ha rinviato la causa al tribunale di sorveglianza affinché quest'ultimo motivasse la suddetta decisione.

MOTIVI DI RICORSO

Invocando gli articoli 3 e 8 della Convenzione, il ricorrente lamenta la continua videosorveglianza nella sua cella compreso il gabinetto.

IN DIRITTO

Invocando gli articoli 3 e 8 della Convenzione, il ricorrente lamenta di essere stato sottoposto ad una continua videosorveglianza nella sua cella, compreso il gabinetto. Ai sensi dell'articolo 3 della Convenzione,
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»
L'articolo 8 della Convenzione dispone:
« 1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare (...).
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria (...) alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati (...)»
Il Governo eccepisce il mancato esaurimento dei mezzi di ricorso interni in quanto il ricorrente non ha sollevato dinanzi alle autorità giudiziarie competenti il motivo relativo alla videosorveglianza. Il Governo fa riferimento ai rimedi previsti dalle disposizioni pertinenti e alla giurisprudenza della Corte di cassazione. Inoltre, fa notare che il ricorrente non ha praticamente presentato documenti riguardanti i suoi motivi.
Nel merito, il Governo sostiene che la misura contestata non ha raggiunto la soglia minima di gravità richiesta dall'articolo 3 della Convenzione. Per quanto riguarda l'articolo 8 della Convenzione, il Governo osserva che la vita privata in carcere non è tutelata allo stesso modo di quella presso il proprio domicilio. La misura della videosorveglianza è in ogni caso prevista dalla legge, persegue gli scopi legittimi della difesa dell'ordine pubblico e della prevenzione dei reati. Inoltre, essa serve per la sicurezza e la tutela della salute dell'interessato in quanto permette di rilevare cadute e atti di automutilazione e previene qualsiasi rischio di maltrattamenti. In passato era possibile avvalersi di un maggior numero di sorveglianti che utilizzavano gli spioncini presenti anche nel muretto che separava la cella e il gabinetto. Il vecchio sistema era dunque ben più intrusivo di quello attualmente utilizzato. Tenuto conto del fatto che sullo schermo si può vedere soltanto la sagoma del ricorrente e che non è visibile alcun dettaglio, il Governo ritiene che la misura sia proporzionata.
Il ricorrente chiede alla Corte di applicare la regola dell'esaurimento dei mezzi di ricorso con flessibilità. A tale proposito osserva che non vi erano rimedi per contestare la videosorveglianza. Ad ogni modo, quelli che esistono sarebbero inefficaci, visto che per venti anni non è riuscito ad ottenere una decisione positiva dalle autorità giudiziarie investite della questione della compatibilità del suo stato di salute con il mantenimento del regime detentivo del 41bis.
Il ricorrente elenca le restrizioni imposte dal regime del 41bis, fra le quali non figura la videosorveglianza. Secondo lui, questa misura è un atto sadico e degradante che provoca uno stato di frustrazione psicologica in un detenuto che, come lui, dispone di una cella singola. La videosorveglianza è anche un atto incompatibile con la vita privata e non risponde allo scopo di tutelare la salute del detenuto: in effetti, se così fosse, la zona della doccia sarebbe coperta dalla videocamera perché è la più pericolosa quanto al rischio di cadute. Inoltre, tutte le celle sarebbero dotate di videocamere, ma non è così. E le luci non sarebbero accese tutto il tempo. Facendo riferimento alle cause Horych c. Polonia (n. 13621/08, 17 aprile 2012) e Piechowicz c. Polonia (n. 20071/07, 17 aprile 2012), il ricorrente chiede alla Corte di concludere per una violazione della Convenzione. Il ricorrente osserva poi che la legge non prevede specificamente l'uso di videocamere di sorveglianza e che è totalmente priva di regole per quanto riguarda l'uso di questa misura. Di conseguenza vi sarebbe una base legale insufficiente. Inoltre, la misura contestata non è necessaria in una società democratica visto che il ricorrente è già sottoposto da molto tempo alle restrizioni che derivano dall'applicazione del regime del 41bis, che le videocamere funzionano costantemente, che la sua vita privata e la sua intimità sono compromesse. Il ricorrente sostiene che la modalità di conservazione delle immagini non ha base legale e che contrasta con la Convenzione sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati a carattere personale (Serie dei trattati europei n. 108, Strasburgo, 1981).
La Corte rammenta innanzitutto che ai sensi dell'articolo 35 § 1 della Convenzione, un ricorrente deve avvalersi dei ricorsi che normalmente sono disponibili e sufficienti nell'ordinamento giuridico interno per ottenere la riparazione delle violazioni dedotte. Questi ricorsi devono esistere con un sufficiente livello di certezza, in pratica come in teoria, altrimenti mancherebbero loro l'effettività e l'accessibilità volute. Nulla impone di utilizzare i rimedi che non sono né adeguati né effettivi (Andronicou e Constantinou c. Cipro, 9 ottobre 1997, § 159, Recueil des arrêts et décisions 1997 VI).
Nel caso di specie, il ricorrente non contesta né l'esistenza né l'accessibilità dei ricorsi che permettono di lamentare l'applicazione della misura della videosorveglianza. Tuttavia, esso ritiene che questi ricorsi non possano essere considerati efficaci e non devono pertanto essere utilizzati, dal momento che tutti gli altri motivi di ricorso relativi alle condizioni di detenzione che ha sollevato dinanzi ai giudici nazionali sono stati respinti.
La Corte non è convinta dall'argomento del ricorrente e ritiene che il rigetto di altri motivi di ricorso da parte dei giudici nazionali non abbia in alcun modo avuto ripercussioni sull'efficacia dei ricorsi in questione. In questo caso, il ricorrente ha sollevato una sola volta il motivo relativo alla videosorveglianza dinanzi ai giudici nazionali, ossia dinanzi al tribunale di sorveglianza di Ancona. Questo tribunale ha respinto il ricorso, articolato su più doglianze, senza motivare sul punto in questione (paragrafo 8 supra). Avverso questa decisione, il ricorrente non ha proposto ricorso per Cassazione. Ora, risulta dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (paragrafo 12 supra) che il ricorrente avrebbe potuto contestare dinanzi alla suprema giurisdizione la mancata motivazione della decisione di merito ed esigere che un giudice si pronunciasse sulla misura contestata. La Corte di cassazione è in effetti l'istanza nazionale che può interpretare la legge e rafforzare la tutela giurisdizionale delle persone detenute che si trovano sottoposte a restrizioni dei diritti fondamentali come quella denunciata. Peraltro, la Corte nota che il ricorrente non ha sollevato il motivo in causa dinanzi alle autorità giudiziarie nazionali dopo il suo trasferimento nel carcere di Milano Opera.
Ne consegue che il ricorrente non ha soddisfatto la condizione dell'esaurimento dei mezzi di ricorso interni. Il resto del ricorso deve pertanto essere rigettato conformemente all'articolo 35 §§ 1 e 4 della Convenzione.
Per questi motivi, la Corte, all'unanimità

Dichiara il resto del ricorso irricevibile.

Stanley Naismith
Cancelliere

Işıl Karakaş
Presidente