Sanzione amministrativa per non avere sottoposto il figlio minore alle vaccinazioni obbligatorie.
Sanzione amministrativa per non avere sottoposto il figlio minore alle vaccinazioni obbligatorie.
Sanzione amministrativa per non avere sottoposto il figlio minore alle vaccinazioni obbligatorie. (Corte di Cassazione, Sentenza n. 5877 del 24 marzo 2004)
Con sentenza a verbale, pronunciata in data 26 settembre 2000, il giudice di pace di Vicenza rigettava l'opposizione proposta da F. R. e M. K. avverso l'ordinanza ingiunzione con la quale era stata loro applicata la sanzione amministrativa per non avere sottoposto il figlio minore alle vaccinazioni obbligatorie.
Il Giudice escludeva che risultasse correttamente invocata nella fattispecie l'esimente dell'avere agito in stato dì necessità, di cui all'art. 4 della legge n. 689 del 1981, in quanto in base all'art. 54 c.p., applicabile in mancanza di una diversa definizione dello stato di necessità contenuta nella citata legge, lo stato di necessità postula l'attualità del pericolo e non è quindi configurabile, come nella specie, in relazione ad un pericolo futuro. Né poteva ravvisarsi l'esimente putativa, e cioè il convincimento di trovarsi in uno stato di necessità, richiedendo, questa, non il solo stato d'animo dell'agente, ma la presenza di fatti concreti che siano comunque tali da giustificare l'erronea persuasione di trovarsi in una situazione di necessità.
Il giudice riteneva poi corretta la procedura sanzionatoria applicata, perché rispettosa delle norme di cui all'art. 18 della legge n. 689 del 1981, e ciò anche per il quantum della sanzione, e manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità, non essendo sindacabile, sotto il profilo della legittimità costituzionale, la scelta legislativa di imporre l'obbligo di vaccinazioni, poiché con tali scelte il legislatore, in attuazione dell'art. 32 Cost., ha contemperato l'interesse collettivo con quello individuale nella tutela del diritto alla salute.
Avverso tale decisione, F. R. e M. K. propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. Non si è costituito il Comune di Isola Vicentina.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, i ricorrenti deducono violazione dell'art. 23 della legge n. 689 del 1981, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c.. Il giudice, all'udienza del 19 settembre 2000, dopo che le parti avevano precisato le conclusioni e discusso la causa, anziché dare immediata lettura del dispositivo, aveva rinviato la causa solo per tale incombente all'udienza del 26 settembre 2000, e ciò in violazione dell'art. 23, ultimo comma, della citata legge n. 689 del 1981, il quale invece impone che il giudice dia lettura del dispositivo immediatamente dopo la discussione della causa.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha chiarito che nel procedimento di opposizione a sanzione amministrativa ex art. 23 della legge n. 689 del 1981, quale è quello di specie, la lettura del dispositivo della sentenza in udienza successiva a quella della discussione della causa non determina nullità della decisione in quanto non preclude all'atto di raggiungere il suo scopo, né d'altro canto si traduce in una violazione insanabile dei diritti di difesa, ma costituisce una mera irregolarità con riguardo alla prevista concentrazione delle attività di discussione e decisione della causa; e ciò diversamente dall'ipotesi di omessa lettura in udienza del dispositivo della sentenza, che determina invece nullità della sentenza stessa (Cass., 6 luglio 1999, n. 7011; in senso analogo, Cass., 26 luglio 1996, n. 6777).
Orbene, poiché gli stessi ricorrenti affermano che il Giudice di pace, all'esito della discussione, ha rinviato la causa ad una successiva udienza per la lettura del dispositivo e non contestano che, in detta udienza, il dispositivo sia stato letto, deve escludersi che si sia verificata la denunciata nullità.
Con un secondo motivo, i ricorrenti deducono violazione dell'art. 4 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nonché insufficienza della motivazione su un punto decisivo della controversia. Ad avviso dei ricorrenti, il giudice avrebbe errato nell'escludere la sussistenza, nella specie, dello stato di necessità, in quanto se essi avessero vaccinato il figlio lo avrebbero comunque esposto ad un imminente pericolo di danno grave alla salute, evitabile soltanto sottraendolo alle vaccinazioni. In particolare, poi, il timore per le conseguenze delle vaccinazioni era generato dal fatto che la figlia della sorella del ricorrente F. era stata colpita da encefalopatia a seguito della somministrazione di vaccini obbligatori. Ai fini della configurabilità dello stato di necessità, del resto, sarebbe ininfluente il fatto che le complicanze da vaccino siano trascurabili in termini percentuali, in quanto una pur minima possibilità di conseguenze nocive della salute dei singoli esiste, tanto che in famiglia si era già verificata una simile evenienza dannosa. Il Giudice di pace avrebbe errato altresì nell'escludere l'esistenza della esimente putativa, in quanto non avrebbe in alcun modo considerato il precedente caso di encefalopatia verificatosi in famiglia che invece giustificava il loro comportamento, ispirato dalla premura nei confronti della salute del figlio. In sostanza, sarebbe sufficiente l'erronea supposizione della sussistenza dello stato di necessità da parte del trasgressore, che darebbe luogo ad un errore sul fatto non punibile perché non determinato da colpa. In proposito, i ricorrenti invocano l'applicazione della disposizione di cui all'art. 530, comma 3, c.p.p., ai sensi della quale il giudice pronunzia sentenza di assoluzione anche quando la sussistenza della causa di esclusione della responsabilità non sia pienamente dimostrata, trattandosi di principio che dovrebbe operare anche per le violazioni depenalizzate; ai sensi dell'art. 23, comma dodicesimo, poi, il giudice dovrebbe accogliere l'opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell'opponente.
Anche tale motivo è infondato.
Occorre premettere che questa Corte ha affermato che, ai fini dell'accertamento della sussistenza o meno delle cause di esclusione della responsabilità in tema di sanzioni amministrative, previste dall'art. 4 della legge n. 689 del 1981, in mancanza di ulteriori precisazioni, occorre fare riferimento alle disposizioni che disciplinano i medesimi istituti nel diritto penale e segnatamente, per quanto concerne lo stato di necessità, all'art. 54 cod. pen. (Cass., 20 novembre 1985, n. 5710; Cass., 2 ottobre 1989, n. 3961; Cass., 25 maggio 1993, n. 5866, in motivazione; Cass., 12 maggio 1999, n. 4710; Cass., 12 luglio 2000, n. 9254; Cass., 5 marzo 2003, n. 3254). Si è altresì ritenuto che sia idonea ad escludere la responsabilità anche la supposizione erronea degli elementi concretizzanti lo stato di necessità, e cioè di una situazione concreta che, ove esistesse realmente, integrerebbe il modello legale dello stato di necessità; e ciò in quanto l'art. 3, secondo comma, della legge n. 689 del 1981 esclude la responsabilità quando la violazione è commessa per errore sul fatto, ipotesi questa nella quale rientra anche l'erroneo convincimento della sussistenza di una causa di giustificazione, il cui onere probatorio grava su colui che invochi l'errore (Cass., 20 novembre 1985, n. 4710, cit.; Cass., 25 maggio 1993, n. 5866, cit.; Cass., 12 maggio 1999, n. 4710, cit., la quale fa discendere l'ammissibilità, anche in tema di illecito amministrativo, delle esimenti putative dall'art. 59 cod. peri., a norma del quale "se l'agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui").
Orbene, la sentenza impugnata si è attenuta a tali principi, sia allorquando ha affermato che per la individuazione degli elementi costitutivi dello stato di necessità deve farsi riferimento alla definizione posta dall'art. 54 cod. peri., e ha ritenuto di dover verificare la sussistenza della necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, sia allorquando ha valutato la condotta degli opponenti nella prospettiva della esimente putativa, affermando che ciò che rileva non è lo stato d'animo dell'agente, ma la presenza di fatti concreti che siano comunque tali da giustificare l'erronea persuasione di trovarsi in una situazione di necessità.
Deve quindi escludersi il denunciato vizio di violazione di legge, risultando le affermazioni contenute nella sentenza impugnata del tutto coerenti con i principi enucleati dalla giurisprudenza di questa Corte nella interpretazione degli articoli 3 e 4 della legge n. 689 del 1981.
Residua quindi il denunciato vizio di insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. In proposito, occorre rilevare che il Giudice di pace ha ritenuto che lo stato di necessità postula che il pericolo sia presente quando il soggetto agisce e sia imminente il danno che ne possa derivare, non potendosi configurare l'esimente in questione in relazione ad un danno futuro, tanto più quando, come nel caso delle vaccinazioni obbligatorie, il pericolo di gravi complicanze risulti del tutto trascurabile. Che le vaccinazioni obbligatorie possano essere fonte di pericoli per le persone che ad esse sono sottoposte, è circostanza che può darsi per acquisita, posto che, da un lato, la Corte costituzionale ha dichiarato la illegittimità costituzionale della legge 4 febbraio 1966, n. 51 (Obbligatorietà della vaccinazione antipoliomielitica), nella parte in cui non prevede, a carico dello Stato, un'equa indennità per il caso di danno derivante, al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 2043 cod. civ., da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica, riportato dal bambino vaccinato e da altro soggetto a causa dell'assistenza personale diretta prestata al primo (sent. n. 307 del 1990); dall'altro, il legislatore ha dettato un'apposita disciplina volta ad indennizzare proprio i soggetti danneggiati dalle vaccinazioni obbligatorie (legge 25 febbraio 1992, n. 210, sulla quale v. Corte cost., sent. n. 118 del 1996).
La motivazione della sentenza impugnata, dunque, non può ritenersi insufficiente, giacché ha riconosciuto l'esistenza dei rischi derivanti da vaccinazioni obbligatorie, ma li ha ritenuti non attuali e statisticamente non apprezzabili. Né la denunciata insufficienza può ravvisarsi in ciò che il Giudice non avrebbe apprezzato le circostanze di fatto addotte dagli opponenti a giustificazione del proprio rifiuto di sottoporre il figlio minore alle vaccinazioni obbligatorie, giacché la documentazione prodotta risulta essere stata presa in considerazione dal giudice e da questi ritenuta inidonea ad integrare l'erronea convinzione di trovarsi in uno stato di necessità. Ogni valutazione di questa Corte si risolverebbe dunque in un diverso apprezzamento di circostanze di fatto e di documenti acquisiti nel giudizio di merito, peraltro non integralmente riprodotti nel ricorso, in violazione del principio di autosufficienza di tale atto, il che deve ritenersi inammissibile in sede di legittimità. Del resto, che la prova del pregiudizio potenzialmente derivante al minore dalla sottoposizione alle vaccinazioni obbligatorie debba essere desunta da una particolare condizione sanitaria del soggetto, è stato ritenuto da Cass., 4 marzo 1996, n. 1653, sia pure ai diversi fini della adozione dei provvedimenti di cui all'art. 333 cod. civ..
Con il terzo motivo, i ricorrenti denunciano violazione dell'art. 11 della legge n. 689 del 1981, nonché difetto o insufficienza di motivazione su un punto decisivo. La sentenza impugnata violerebbe la citata disposizione in quanto il giudice si sarebbe limitato a sostenere la correttezza della sanzione pecuniaria irrogata nel quantum, senza aggiungere altro al riguardo; l'art. 11 invece dispone che nel determinare la sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo e un limite massimo si ha riguardo alla gravità della violazione e ad altri criteri, configurando così un obbligo di motivazione per la irrogazione di una sanzione in misura superiore al minimo. Nella specie, le sanzioni previste erano da lire 60.000 a lire 300.000 per la violazione delle leggi n. 292 del 1963 e 891 del 1939 (antitetanica e antidifterica); fino a lire 300.000 per la violazione della legge n. 51 del 1966 (antipolio); da lire 100.000 a lire 500.000 per la violazione della legge n. 165 del 1991 (antiepatite B), sicché la sanzione minima applicabile era di lire 172.000. Il Giudice si è invece limitato a confermare la sanzione irrogata dall'amministrazione senza fornire alcuna motivazione ai riguardo, mentre sarebbe stato suo preciso onere quello di verificare la conformità alla legge dei criteri in base ai quali la quantificazione della sanzione è stata effettuata dall'amministrazione e quindi commisurare la sanzione alla effettiva entità della violazione.
Il motivo è infondato.
Va al riguardo ricordato che ove la norma indichi un minimo ed un, massimo della sanzione pecuniaria spetta al potere discrezionale del giudice determinarne l'entità entro tali limiti, allo scopo di commisurarla alla gravità del fatto concreto, globalmente desunta dai suoi elementi oggettivi e soggettivi. Peraltro il giudice non è tenuto a specificare nella sentenza i criteri adottati nel procedere a detta determinazione, né la Corte di Cassazione può censurare la statuizione adottata ove tali limiti siano stati rispettati e dal complesso della motivazione risulti che quella valutazione è stata compiuta; ove poi l'infrazione non abbia caratterizzazioni specifiche che possano indurre a maggiore o minor rigore, è da ritenere corretto il riferimento alla misura deducibile dall'art. 16 della legge n. 689 del 1981, che prevede il pagamento in misura ridotta pari alla terza parte del massimo edittale o, se più favorevole, al doppio del minimo (Cass., 4 novembre 1998, n. 11054; in senso conforme, Cass., 10 dicembre 1996, n. 10976; Cass., 22 giugno 2001, n. 8532). Del resto, come questa Corte ha già chiarito, poiché nel procedimento di opposizione a sanzione amministrativa pecuniaria la motivazione dell'ordinanza ingiunzione in ordine alla concreta determinazione della sanzione non assume rilievo, risolvendosi semplicemente nell'esposizione dei criteri seguiti dall'autorità ingiungente per pervenire alla liquidazione della somma pretesa, il giudice dell'opposizione, investito della questione relativa alla congruità della sanzione, non è chiamato propriamente a controllare la motivazione dell'atto sul punto ma a determinare la sanzione applicando direttamente i criteri previsti dall'art. 11 della legge n. 689 del 1981, e, ove l'opponente si sia limitato a lamentare l'eccessività della sanzione stessa, senza dedurre elementi specifici che possano indurre ad apprezzare la violazione con minor rigore, può ritenere congrua una somma prossima alla metà del massimo della sanzione edittale (Cass., 2 febbraio 1996, n. 911).
Nella specie, il giudice del merito ha rigettato il motivo di opposizione concernente il quantum della sanzione irrogata, osservando che la procedura sanzionatoria risulta rispettosa della legge n. 689 del 1981. In tal modo, il giudice ha implicitamente ritenuto adeguata e congrua la determinazione della sanzione irrogata dall'autorità amministrativa.
Con il quarto motivo, i ricorrenti eccepiscono la illegittimità costituzionale delle leggi n. 165 del 1991, artt. 1 e 7; n. 51 del 1966, artt. 1 e 3; n. 419 del 1968, art. l; n. 819 del 1939, art. 1, nonché insufficiente motivazione. Premesso che il Giudice di pace ha dichiarato manifestamente infondata l'eccezione in questione solo con riferimento all'art. 32 Cost., mentre essa era stata prospettata anche con riferimento agli artt. 2 e 3, i ricorrenti lamentano che le citate leggi non terrebbero in considerazione il principio della garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo non solo nell'ambito della collettività, ma anche come singolo, e quello che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà di tutti i cittadini, giacché impongono ai singoli trattamenti sanitari che non sarebbero sempre adatti allo stato di salute dei medesimi senza lasciare alcuna possibilità di scelta. La stessa Corte costituzionale, del resto, ha definito il diritto alla salute non solo come interesse della collettività, ma soprattutto come diritto primario e assoluto di ogni individuo, giungendo ad affermare che il rilievo della salute come interesse della collettività non é da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria, non potendo la stessa comportare il sacrificio della salute di ciascuno per la salute degli altri, e ad invitare il legislatore ad individuare specifici e puntuali limiti agli accertamenti preventivi idonei a prevedere e a prevenire i possibili rischi di complicanze derivanti dalla inoculazione dei vaccini.
Le considerazioni svolte in precedenza inducono a ritenere la questione di legittimità costituzionale sollevata dai ricorrenti manifestamente infondata, in relazione a tutti i parametri indicati. La Corte costituzionale, infatti, ha già dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale delle leggi 27 maggio 1991, n.165, 4 febbraio 1966, n. 51, 6 giugno 1939, n. 891, 5 marzo 1963, n. 292 e 20 marzo 1968, n. 419, che prevedono le vaccinazioni obbligatorie (rispettivamente antiepatite B, antipolio, antidifterica e antitetanica), sollevate in riferimento all'art. 32 Cost., in quanto non prevederebbero la necessità di accertamenti preventivi, idonei quanto meno a ridurre il rischio, pur percentualmente modesto, di lesioni della integrità psico-fisica per complicanze da vaccino, volti alla verifica della sussistenza di eventuali controindicazioni alla vaccinazione nonché della specificazione dei tipi di accertamenti che debbono a tal fine compiersi (sent. n. 258 del 1994).
In tale pronuncia, la Corte ha rilevato che le citate leggi sono finalizzate alla tutela della salute collettiva e che la loro compatibilità con il precetto costituzionale di cui all'art. 32 Cost. postula, come precisato in altre pronunce (v. sentt. nn. 307 del 1990, 132 del 1992 e 218 del 1994, ma v. anche la successiva sentenza n. 118 del 1996), il contemperamento tra i valori, ivi contemplati, del diritto alla salute della collettività e del diritto alla salute del singolo, sicché l'eventuale introduzione di una disciplina normativa puntuale e specifica, a tutela di quest'ultimo, la quale imponga la obbligatorietà di accertamenti preventivi idonei a ridurre, se non ad eliminare, il rischio sia pure percentualmente modesto di lesioni all'integrità psico fisica dell'individuo per complicanze da vaccino, potrebbe realizzarsi solo attraverso un corretto bilanciamento tra entrambi i detti valori, implicante ineludibilmente l'intervento del legislatore. L'adeguamento ai principi costituzionali delle attuali • disposizioni che già stabiliscono la doverosità di osservanza, in sede di esecuzione del trattamento, di opportune cautele e modalità ha osservato ancora la Corte, dovrebbe essere necessariamente attuato mediante una complessa ed articolata normativa di carattere tecnico a livello primario attesa la riserva di legge e, nel caso, a livello secondario integrativo, e la fissazione di standards di fattibilità anche in relazione al rapporto costi benefici.
Sulla base di tali argomentazioni, svolte alla stregua del parametro costituito dall'art. 32 Cost., risulta anche la manifesta infondatezza della questione in riferimento agli artt. 2 e 3 Cost.. L'esigenza di tutela dei diritti inviolabili della persona è infatti stata tenuta ben presente dalla Corte costituzionale nelle pronunce in materia di vaccinazioni obbligatorie, così come il riferimento al complesso bilanciamento di interessi e valori coinvolti nella problematica delle vaccinazioni obbligatorie consente di ritenere che la previsione di un siffatto trattamento corrisponda ad un non irragionevole apprezzamento del legislatore nell'attuazione del precetto costituzionale che prescrive il diritto alla salute come interesse del singolo e, ad un tempo, della collettività.
E ciò senza tener conto che in ogni caso la posizione dei singoli può essere pur sempre tutelata attraverso il ricorso alle esimenti di cui all'art. 4 della legge n. 689 del 1981, la cui applicazione richiede però, come detto, un rigoroso accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Non avendo l'amministrazione intimata svolto attività difensiva non vi è luogo a pronunciare sulle spese del presente giudizio.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso; nulla spese.
Ultima modifica: 18/06/2004
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