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Procedimento disciplinare a carico del magistrato - doveri di correttezza e soggezione alla legge

Procedimento disciplinare a carico del magistrato - doveri di correttezza e soggezione alla legge - affidare abitualmente agli avvocati delle parti private la stesura di provvedimenti decisori a contenuto seriale - non doversi procedere per non essere

Procedimento disciplinare a carico del magistrato -  doveri di correttezza e soggezione alla legge - affidare abitualmente agli avvocati delle parti private la stesura di provvedimenti decisori a contenuto seriale - non doversi procedere per non essere stata l'azione disciplinare promossa nei termini di legge (Cassazione , SS.UU. civili, sentenza 20.06.2006 n. 14100)

Cassazione , SS.UU. civili, sentenza 20.06.2006 n. 14100

Svolgimento del processo

A seguito di accertamenti compiuti dal competente Ispettorato, il Ministro della Giustizia ha promosso, in data 8 settembre 2003, azione disciplinare nei confronti di R.G.M., consigliere della sezione lavoro presso la Corte di appello di Napoli, di P.P., giudice del lavoro presso il Tribunale di Trani e di C.E., giudice del lavoro presso il Tribunale di Foggia per avere le stesse gravemente mancato ai propri doveri di correttezza e soggezione alla legge, rendendosi immeritevoli della fiducia e della considerazione di cui il magistrato deve godere, compromettendo in tale modo il pregiudizio dell'ordine giudiziario (a norma del R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511, art. 18).

E' stato addebitato, alle predette, in particolare, di avere instaurato la prassi di affidare abitualmente agli avvocati delle parti private la stesura di provvedimenti decisori a contenuto seriale.

Da un lato, in particolare, l'attività di stesura dei provvedimenti, ancorchè già decisi, era delegata a alcuni studi legali, con loro proprio vantaggio in termini di celerità, dall'altro, in moltissimi casi, la stesura del provvedimento aveva addirittura preceduto la discussione e la pronunzia della sentenza, da ultimo, era invalsa la prassi di adoperare moduli - di dispositivi e di motivazioni - predisposti dagli avvocati (alcune volte forniti dai magistrati agli avvocati, altre dagli stessi avvocati inseriti nei singoli fascicoli), con la conseguenza - oltre che di creare uno squilibrio tra i professionisti investiti di tale rapporto di collaborazione e tutti gli altri - che talvolta, a causa dell'insufficiente controllo da parte dei giudici, si erano verificati casi in cui il provvedimento, steso in modo erroneo dagli avvocati, era stato depositato con contenuto generico o, addirittura, difforme rispetto all'oggetto della domanda.

Alla R. - addetta alla trattazione delle cause di lavoro e previdenziali prima nella pretura, poi presso il Tribunale di Foggia, è stato altresì, contestato di avere intrattenuto rapporti di frequentazione abituale con l'avv. F.P., del locale foro, idonei a incidere sull'imparziale esercizio della funzione giudiziaria, come dimostrato dall'esito differenziato di alcune cause seriali (favorevole al detto legale).

Con sentenza 14 luglio - 7 ottobre 2005 la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura ha dichiarato di non doversi procedere, nei confronti delle Dott.sse R.G., P. P. e C.E. per non essere stata l'azione disciplinare promossa nei termini di legge.

Avverso tale pronunzia ha proposto ricorso, affidato a due motivi, il Ministero della Giustizia.

Resistono, con controricorso R.G., P.P. e C.E..

Motivi della decisione

1. Deduce, in limine, la difesa delle controricorrenti la inammissibilità del ricorso avversario nei confronti di C. E..

Si osserva, al riguardo, che la stessa era difesa, nel giudizio innanzi alla Sezione Disciplinare, dal Dott. Giacomo Caliendo, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione.

E' valida, pertanto, si evidenzia, esclusivamente la notificazione del ricorso avvenuta presso detto ufficio Procura generale presso la Corte di Cassazione il 10 gennaio 2006, quando già erano scaduti i termini per la impugnazione, senza che possa attribuirsi alcun rilievo alla circostanza che nei termini di rito (il 13 dicembre 2005) il piego, contenente il ricorso, sia stato consegnato agli Ufficiali giudiziari, atteso che detto piego reca, quale indirizzo del Dott. Caliendo la Procura Generale della Corte di Appello di Milano, Ufficio presso il quale lo stesso non era, alla detta data, in servizio.

2. L'eccezione è manifestamente infondata.

Almeno sotto due, concorrenti, profili.

2.1. In primo luogo - in conformità a una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice - si osserva che è nulla e non inesistente la notificazione eseguita in luogo e a soggetto diversi da quelli indicati nella norma processuale, ma aventi sicuro riferimento con il destinatario dell'atto, quale la notificazione effettuata al difensore costituito presso un indirizzo diverso da quello indicato come domicilio e la nullità è sanabile ex tunc o mediante costituzione della parte - che non può ritenersi intervenuta con la semplice deduzione della nullità della notificazione - o in forza della rinnovazione della notifica ai sensi dell'art. 291 c.p.c. (tra le tantissime, in questo senso, cfr. Cass. 20 gennaio 2006, n. 1108; Cass. 28 giugno 2005 n. 13918, specie in motivazione; Cass. 11 maggio 2005, n. 9892).

2.2. In secondo luogo, anche a prescindere da quanto precede, si evidenzia che in sede di ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione proposto avverso una sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, legittimi e necessari contraddittori sono, oltre al magistrato incolpato, il Ministro della giustizia ed il Procuratore generale presso la Suprema Corte, con la conseguente operatività, ai fini della disciplina del litisconsorzio nella detta fase di gravame, della disposizione di cui all'art. 331 c.p.c. (cfr., ad esempio, Cass., sez. un., 2 luglio 2003, n. 10463).

Certo che nella specie il ricorso risulta tempestivamente notificato mediante consegna a mani in data 13 dicembre 2005, a istanza del Ministro della Giustizia, al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, è palese che la tardiva almeno giusta la prospettazione della parte controricorrente notificazione del ricorso alla C., vale (specie unita alla sua costituzione in giudizio per resistere all'avverso gravame) come integrazione del contraddittorio a norma dell'art. 331 c.p.c. (cfr. Cass. 28 gennaio 2005, n. 1753; Cass. 13 luglio 2004, n. 12058, tra le tantissime).

3. Come accennato in parte espositiva la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha dichiarato di non doversi procedere, nei confronti delle odierne controricorrenti "dato che l'azione disciplinare fu promossa per tutte e tre le incolpate in data 8 settembre 2002 e che ... il Ministero era pienamente informato dei comportamenti tenuti dalle stesse rispettivamente in data 31 agosto 2002 per l'esposto sub 2, (avente a oggetto la predisposizione e stesura materiale da parte di studi professionali privati delle sentenze in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie in cui è parte l'I.N.P.S.) e in data 25 luglio 2002 per l'esposto sub 3 (con il quale si denunziava che la Dott.ssa R. notoriamente intratteneva rapporti di stretta familiarità con l'avv. ... F. del foro di Foggia, operante nell'ambito della sezione lavoro del locale Tribunale e che dai detti rapporti, derivava la compromissione dell'imparzialità delle decisioni del magistrato). Deve dichiararsi non doversi procedere, ha precisato la pronunzia ora oggetto di ricorso - "perchè l'azione non è stata promossa dal titolare della azione disciplinare nel termine di un anno dalla conoscenza dei fatti, ai sensi del D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, art. 59, comma 6,".

4. Parte ricorrente censura la riassunta pronunzia lamentando: - da un lato, "violazione di legge o falsa applicazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla norma di cui del al D.P.R. n. 916 del 1958, art. 59, comma 6", atteso che la mera acquisizione dell'esposto, sia pure proveniente da fonte qualificata non impone alcun obbligo, in termini di osservanza del termine di decadenza, se a questo esposto sia seguita, come nel caso di specie, una inchiesta amministrativa, anche considerato che gli elementi acquisiti attraverso gli esposti devono, per giurisprudenza costante, essere certi e tali non potevano definirsi gli elementi raccolti dagli esponenti se non avvalorati dai riscontri ottenuti a seguito della inchiesta amministrativa (primo motivo, prima parte);

- dall'altro, "carenza di motivazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5" essendo del tutto indimostrato l'assunto secondo il quale l'inchiesta non abbia aggiunto nulla di più rispetto alle rimostranze degli esponenti (primo motivo, seconda parte);

- da ultimo, "contraddittorietà della motivazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, nella parte in cui la sentenza impugnata, da un lato afferma che sulla base di questi elementi può ritenersi che già alla data del 31 agosto 2002 (in cui fu ricevuto l'esposto dall'Ispettorato) gli organi ministeriali avevano a disposizione tutti gli elementi per una sufficiente ed esauriente formulazione della incolpazione, e dall'altro, precisa che i detti elementi furono solo meglio delineati (ad esempio, per l'individuazione di quelli, tra i magistrati addetti alla sezione lavoro, maggiormente interessati dal comportamento ritenuto disciplinarmente rilevante", desumendosi da tale ultima affermazione che proprio l'inchiesta ha reso possibile individuare i magistrati resisti responsabili degli illeciti disciplinari (secondo motivo).

5. Tutti i riferiti motivi sono infondati.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

5.1. A norma del D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, art. 59, comma 6, disposizioni di attuazione e di coordinamento della L. 24 marzo 1958, n. 195, concernente la costituzione e il funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e disposizioni transitorie, nel testo attualmente vigente, "l'azione disciplinare non può essere promossa dopo un anno dal giorno in cui il Ministro o il procuratore generale hanno avuto notizia del fatto che forma oggetto dello addebito disciplinare".

Al riguardo una giurisprudenza più che consolidata di queste Sezioni Unite è costante nell'interpretare la disposizione de qua nel senso che la notizia del fatto che forma oggetto dell'addebito, che segna la decorrenza del termine per l'azione disciplinare ai sensi del D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, art. 59, comma 6, sopra trascritta, va intesa come conoscenza certa di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito, non rilevando al suddetto fine l'acquisizione di dati insufficienti ad un'esauriente formulazione dell'incolpazione ed alle corrispondenti esigenze di difesa dell'accusato (Cass., sez. un., 21 maggio 2003, n. 7947; Cass., sez. un., 25 gennaio 2002, n. 910; Cass., sez. un., 24 gennaio 2002, n. 800; Cass., sez. un., 19 luglio 2001, n. 9776; Cass. 8 febbraio 2001, n. 50, tra le tantissime).

Pacifico quanto precede, deve escludersi - tassativamente - che la pronunzia impugnata sia incorsa in violazione o falsa applicazione della disposizione sopra trascritta, per avere ritenuto sufficiente - al fine del decorso del termine in parola - la mera acquisizione dell'"esposto", pur se non corredato con tutti gli elementi di certezza idonei a fornire la prova della sua veridicità e fondatezza.

Se, infatti, l'azione disciplinare non può essere promossa dopo un anno dal giorno in cui il Ministro o il Procuratore Generale hanno avuto notizia del fatto che forma oggetto dello addebito disciplinare, è evidente che detto termine non può che decorrere dalla data in cui il titolare dell'azione disciplinare ha avuto "notizia" di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito e non da quella - evidentemente successiva - in cui ha verificato la rispondenza al vero dei comportamenti addebitati al magistrato.

In altri termini, qualora la "denunzia" di fatti disciplinarmente rilevanti sia circostanziata e specifica, è onere, per i titolari della azione disciplinare, entro un anno dalla "notizia" non solo verificare la fondatezza delle contestazioni (promuovendo le indagini amministrative del caso), ma anche iniziare la azione disciplinare.

5.2. I giudici a quo, ancora, hanno accertato, in linea di fatto, che il primo esposto - indirizzato all'Ispettorato ministeriale - aveva ad oggetto "predisposizione e stesura materiale da parte di studi professionali privati delle sentenze in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie in cui è parte l'I.n.p.s.", era sottoscritto dall'avv. Todaro, coordinatore dell'Avvocatura centrale dell'I.n.p.s. e denunziava "in termini analitici la irrituale collaborazione ai magistrati del lavoro del Tribunale di Foggia nella predisposizione e nella stesura dei provvedimenti giurisdizionali, individuando i magistrati interessati nonchè gli avvocati del libero foro e dell'Istituto interessati alla vicenda, descrivendo i comportamenti ritenuti indebiti che poi sarebbero stati ascritti alla tre incolpate".

"Detto coordinatore - ha accertato la sentenza impugnata - allegava allo scritto una consistente documentazione di supporto (costituita soprattutto da copia di sentenze pronunziate dai magistrati denunziati)".

Sempre nella sentenza impugnata è rimasto, altresì, accertato - in linea di fatto - che quanto all'esposto nei confronti della R. questo, sottoscritto dall'avv. Costa, denunziava "che la Dott.ssa R. notoriamente intratteneva rapporti di stretta familiarità con l'avv. F.P. del foro di Foggia, operante nell'ambito della sezione lavoro del locale Tribunale e che dai detti rapporti derivava la compromissione della imparzialità delle decisioni del magistrato". "In particolare - si precisa in sentenza - erano indicate (nel descritto esposto) alcune controversie di lavoro in cui la Dott.ssa R. aveva adottato decisione a favore delle parti patrocinate dall'avv. F. ed altre in cui lo stesso magistrato, nonostantel'identico contenuto della controversia, aveva adottato decisioni diverse secondo che le parti fossero o meno patrocinate da detto professionista".

Pacifici gli accertamenti sopra indicati, è di palmare evidenza la manifesta infondatezza della seconda parte del primo motivo del ricorso, ove, in particolare, si lamenta "carenza di motivazione ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5" e che "l'assunto secondo il quale l'inchiesta non abbia aggiunto nulla di più rispetto alle rimostranze degli esponenti appare del tutto indimostrato", sul rilievo "che nella sentenza in esame nulla si dice in ordine agli elementi che avrebbero dovuto prima facie, in assenza di riscontri oggettivi oltre che eventuali elementi accessori, costituire l'oggetto degli addebiti".

E' sufficiente al riguardo considerare - come accertato dalla sentenza impugnata (e, palesemente non suscettibile di riesame in questa sede, essendo precluso, da parte di questa Corte di Cassazione, allorchè viene prospettato, come nella specie, un error in iudicando, procedere a un esame diretto degli atti, al fine di pervenire ad una loro lettura in termini diversi rispetto a quella fattane dal giudice a quo) - che esiste perfetta coincidenza tra gli addebiti imputati ai tre magistrati oggi controricorrenti nei due "esposti", rispettivamente a firma dell'avv. Todaro e dell'avv. Costa, e i fatti contestati alle stesse con l'azione disciplinare promossa l'8 settembre 2003, oltre un anno dalla data in cui il Ministro aveva avuto conoscenza di entrambi gli esposti. 5.3. Come noto, sussiste il vizio di contraddittoria motivazione di cui all'art. 360 c.p.c., n. 5, allorchè si ravvisi, nella sentenza impugnata con ricorso per Cassazione, un insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (cfr. Cass. 27 maggio 2005, n. 8718; Cass. 7 dicembre 2004, n. 22979; Cass. 12 agosto 2004, n. 15693). Pacifico quanto precede, deve escludersi che nella sentenza impugnata sia ravvisabile, nella espressione censurata con il secondo motivo di ricorso ("sulla base di questi elementi può ritenersi che già alla data del 31 agosto 2002 (in cui fu ricevuto l'esposto dall'Ispettorato) gli organi ministeriali avevano a disposizione tutti gli elementi per una sufficiente ed esauriente formulazione della incolpazione, i quali alla data successiva furono solo meglio delineati (ad esempio, per l'individuazione di quelli, tra i magistrati addetti alla sezione lavoro, maggiormente interessati dal comportamento ritenuto disciplinarmente rilevante"), l'indicato vizio.

Non solo la frase, in sè, non contiene proposizioni contraddittorie e non conciliabili, ma non è dato neppure comprendere contro quale altra parte della motivazione la stessa collida.

Quanto, ancora, all'ulteriore precisazione, contenuta nella parte finale del ricorso "tale asserzione appare invero affermare che proprio l'inchiesta ha reso possibile individuare i magistrati resisi responsabili degli illeciti disciplinari, atteso che l'esposto dell'avv. Todaro per conto dell'I.n.p.s non specificava i nominativi di coloro che si erano prestati alle irritualità segnalate", la stessa non coglie nel segno sotto alcun profilo. In primo luogo deve escludersi che dalla frase, estrapolata dalla motivazione della sentenza impugnata, e sopra trascritta, possa trarsi la conclusione che la sentenza impugnata abbia inteso affermare che il Ministro è venuto a conoscenza dei nominativi dei magistrati responsabili degli illeciti disciplinari solo al termine dell'ispezione, certo essendo che la sentenza gravata ha accertato - come riferito sopra - che l'esposto dell'avv. Todaro individuava espressamente "i magistrati interessati" (e, del resto, recava in allegato copia delle sentenze pronunziate dai magistrati (denunziati).

In secondo luogo, nell'eventualità che l'espressione sopra riferita si voglia interpretare (peraltro in contrasto con quanto affermato nella prima parte del ricorso) nel senso che, in realtà, l'esposto dell'avv. Todaro siccome non specificava i nominativi dei magistrati autori delle irritualità ivi denunziate non era sufficiente ex se a far decorrere il termine di cui al D.P.R. 16 settembre 1958, n. 916, art. 59, comma 6, la censura deve essere dichiarata inammissibile, dovendo, eventualmente, la censura essere fatta valere con il rimedio di cui all'art. 395 c.p.c., n. 3 (Cass. 30 gennaio 2003, n. 1512; Cass. 1 giugno 2002, n. 7965; Cass. 9 agosto 2002 n. 12087, tra le tantissime).

6. Risultato infondato in ogni sua parte, il proposto ricorso, in conclusione, deve essere rigettato.

Sussistono giusti motivi, attesa la natura delle controversia, onde disporre, tra le parti, la totale compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa tra le parti, le spese di questo giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, il 11 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 20 giugno 2006.

 

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