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Rimborso quota premio assicurazione - Maggiorare i prezzi in modo uniforme per tutto il mercato nazionale

Rimborso quota premio assicurazione - Maggiorare i prezzi in modo uniforme per tutto il mercato nazionale, in violazione dellal. 287/1990

Rimborso quota premio assicurazione - Maggiorare i prezzi in modo uniforme per tutto il mercato nazionale, in violazione della l. 287/1990 (Corte di cassazione, Sezioni unite civili, Sentenza 4 febbraio 2005, n. 2207)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 18 febbraio 2002 Mario Ricciarelli conveniva davanti al Giudice di pace di Avellino la S.p.a. Unipol Assicurazioni per sentirla condannare al pagamento della somme corrispondenti al 20% di quanto da lui versato a titolo di premio relativamente alla polizza assicurativa r.c.a. 30/728795339, per il periodo settembre 1998-settembre 1999.

Chiedeva in subordine che fosse il giudice adito a determinare in via equitativa quanto a lui spettante.

Sosteneva che tale somma, comunque determinata, gli era dovuta giacché la polizza suddetta era stata stipulata secondo le condizioni determinate dal cartello delle società assicuratrici, il cui effetto era stato di maggiorare i prezzi in modo uniforme per tutto il mercato nazionale, in violazione della l. 287/1990, dei principi di correttezza e buona fede e con pregiudizio di essa particolare, più debole in quanto obbligata a contrarre. Deduceva che l'autorità garante della concorrenza e del mercato aveva inflitto alla Unipol, per violazione del divieto di cui all'art. 2 della predetta legge antitrust, il pagamento a titolo di sanzione amministrativa della somma di lire 33.050.995.445.

La convenuta resisteva ed oltre a contestare il fondamento della pretesa, eccepiva l'incompetenza del giudice per esservi la competenza della Corte d'appello, ai sensi dell'art. 33 della l. 287/1990. Deduceva anche il incompetenza per territorio dello stesso Giudice di pace.

Il giudice di primo grado riteneva la propria competenza sotto ogni profilo, quindi accoglieva la domanda condannando la Unipol al pagamento in favore dell'attore della somma di lire 151.684, pari ad euro 78,34, indebitamente riscossa quale effetto dell'intesa, vietata dalla legge.

La sentenza in esame prendeva atto della notorietà della questione, che aveva sollevato scalpore sia in Italia che all'estero, ed altresì del provvedimento dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato che aveva inflitto alla Unipol la sanzione innanzi menzionata. Dava atto che a tale decisione l'Agcm era pervenuta a seguito di una compiuta istruttoria, il cui risultato era stato l'accertamento dell'avvenuto scambio di informazioni tra le imprese del ramo, che aveva dato a sua volta luogo ad un comportamento delle stesse del tutto omogeneo e tale pertanto da impedire al contraente di individuare un assicuratore che, praticando effettiva concorrenza, offrisse prezzi migliori di quello nella specie pagato.

Sulla base di tale premessa la sentenza impugnata spiegava anche il più alto livello dei prezzi di tali polizze rispetto alla media europea.

Quindi, quanto alla questione della competenza, riteneva che ai sensi dell'art. 33 della legge Antitrust la domanda di risarcimento del danno che fonda la competenza della Corte d'appello consegue al pregiudizio che hanno subito gli imprenditori terzi rispetto al cartello o alla posizione dominante, ovvero gli imprenditori in concorrenza con quegli imprenditori che vi hanno aderito, e che risultano a tal titolo vittime dell'intesa o della posizione dominante. La predetta azione pertanto non riguarda i soggetti oltre che terzi rispetto alla intesa i anche non concorrenti dei partecipi alla stessa, e dunque non riguarda le domande avanzate da soggetti non imprenditori, ancorché anch'essi subiscano il cartello o il dominio.

Riteneva che il giudice al quale siffatte domande provenienti da soggetti diversi dagli imprenditori vanno rivolte deve essere individuato alla stregua dei criteri di cui all'art. 1469-bis n. 18 e nella specie, trattandosi di domanda di ripetizione di indebito oggettivo, ai sensi dell'art. 2033 c.c. Ciò perché la sanzione di nullità dell'autorità antitrust colpisce il cartello e non colpisce i contratti che, successivamente al cartello, vengono conclusi con i singoli automobilisti. Costoro, secondo il Giudice di pace, si trovano nella situazione di pagare più di quanto una contrattazione che non fosse derivata dal cartello avrebbe implicato. Infine il Giudice di pace riteneva di far uso del potere di determinare secondo equità, atteso il valore della causa in riferimento all'art. 113 c.p.c., la somma spettante al Ricciarelli.

Contro questa sentenza ha presentato ricorso per cassazione la Unipol, affidato a cinque motivi. Ha resistito il Ricciarelli con controricorso.

La causa, assegnata alla terza Sezione civile della corte di Cassazione, è stata rimessa al primo presidente con ordinanza 15538/2003. In essa il collegio, preso atto di un indirizzo della Corte Suprema (Cassazione 17475/2002) secondo il quale i consumatori ovvero i soggetti non imprenditori e pertanto terzi rispetto alla intesa, non sono legittimati ad esperire l'azione di nullità della stessa di cui all'art. 33 della l. 287/1990, ha ipotizzato l'opportunità di rimettere la questione della legittimazione ad agire e dunque della competenza della Corte d'appello in unico grado, per la sua particolare importanza, alle Sezione unite.

Con provvedimento del primo Presidente la causa è stata rimessa alla odierna udienza di queste Sezioni unite. Le parti hanno depositato memorie.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la Unipol deduce la violazione dell'art. 33, comma 2, della l. 287/1990 e dell'art. 2033 c.c. nonché la motivazione omessa, illogica ed insufficiente sul punto del rigetto della sua eccezione di incompetenza per materia del giudice adito. Sostiene che il primo giudice ha errato nel ritenere che legittimati alla azione prevista dalla legge Antitrust possano essere solo gli imprenditori esclusi dal cartello e pertanto da questo danneggiati, ed ha errato ancora nel qualificare l'azione in parola come restitutoria e dunque estranea alla previsione di cui all'art. 33 della legge antitrust. Sostiene infatti che la legge ha attribuito alla Corte d'appello in unico grado di merito una competenza, ratione materiae, che prescinde dai soggetti che esercitano il relativo diritto. Deduce pure che siffatto criterio di competenza non può essere eluso attraverso la qualificazione della domanda come restitutoria anziché risarcitoria, giacché anche la restituzione del cosiddetto sovrapprezzo seguirebbe ad una nullità, almeno derivata, del contratto concluso tra la società assicuratrice ed il cliente automobilista, e l'accertamento di tale nullità è devoluto alla Corte d'Appello.

1.a. Osserva il collegio che le due questioni proposte, quella relativa alla legittimazione ad agire e quella relativa alla posizione giuridica dei contratti conclusi tra impresa assicuratrice e cliente "a valle" dell'accordo illecito tra gli imprenditori, costituiscono aspetti del medesimo problema. Ciò in quanto la posizione giuridica del terzo, estraneo all'intesa, che afferma di averne subito gli effetti ne determina la legittimazione ad agire. Tali questioni vanno trattate, pertanto, con una visione complessiva della materia che, movendo da una corretta nozione di intesa, consenta di definire la posizione di quegli che non vi ha partecipato.

1.b. La l. 287/1990, come è noto, rappresentò una novità nel panorama nazionale che, pur della vigenza del Trattato Ce e dunque anche dei principi desumibili dagli artt. 85 (oggi 81) e ss., era tuttavia imperniato sulla logica codicistica della concorrenza sleale, e dunque sulla tutela dell'imprenditore dalla attività scorretta del concorrente. Infatti benché anche la tutela suddetta si sia evoluta nella interpretazione della dottrina e dei giudici facendo si che si attenuasse fortemente l'originaria impronta deontologica e corporativa e si prendesse atto della nozione costituzionale del mercato come luogo della libertà di impresa che attribuisce un rilievo pubblico anche al conflitto interindividuale (Cassazione 11859/1997), essa conserva il carattere fondamentale di strumento dì tutela del corretto rapporto di concorrenza.

La sussistenza di siffatto rapporto tra le parti che controvertono innanzi al giudice è il presupposto della sua operatività e mantiene pertanto la dimensione essenzialmente interindividuale dei conflitti. La normativa che difende l'imprenditore dalla concorrenza sleale, dunque, ancorché la si possa ritenere consapevole della dimensione necessariamente concorrenziale del mercato, provvede pur sempre alla riparazione dello squilibrio che ad uno specifico rapporto di concorrenza viene cagionato dalla scorrettezza di un concorrente.

La novità del Trattato CE è stata l'introduzione della tutela della struttura e della logica competitiva del mercato. Questo in quanto luogo nel quale si esplicita la pretesa di autoaffermazione economica della persona attraverso l'esercizio della impresa, è perciò stesso luogo della competizione, cosicché ogni comportamento di mercato che riduce tale competitività perché diminuisce la possibilità per chiunque di esercitare liberamente la propria pretesa di autoaffermazione, è illecito.

In particolare, poiché l'esercizio della concorrenza presuppone l'autonomia delle imprese concorrenti nell'esercizio delle rispettive scelte di mercato, è illecito ogni fatto che porta a ridurre questa autonomia, assimilando o avvicinando i comportamenti di mercato all'esecuzione di accordi antecedenti ovvero comunque conformandoli oggettivamente ad un certo grado di collaborazione che sostituisce o riduce la competizione.

1.c. Detta affermazione merita qualche ulteriore considerazione.

L'art. 2 della legge antitrust chiarisce che "sono considerati intese" una serie di comportamenti, come gli accordi, le pratiche concordate ed addirittura le deliberazioni di consorzi ed associazioni di imprese. Essi sono vietati se hanno "per oggetto o per effetto dì ridurre o falsare in modo consistente il gioco della concorrenza...". Pertanto se al di là della loro veste giuridico formale, tali attività in realtà mirano ad eliminare ovvero addirittura eliminano o riducono la autonomia di mercato dei soggetti che le compiono, esse integrano l'illecito di cui si tratta. La norma si conclude, al n. 3, con la perentoria statuizione: "le intese vietate sono nulle ad ogni effetto".

L'elencazione del n. 2 dell'art. 2 in parola, considerata esemplificativa, sorregge la lettura della norma innanzi anticipata giacché consente all'interprete di delineare i tipi dei comportamenti anticompetitivi. Le fattispecie elencate, e cioè la fissazione diretta o indiretta dei prezzi di acquisto o di vendita ovvero di altre condizioni contrattuali, l'impedimento e la limitazione della produzione o dello sbocco o dell'accesso al mercato, l'impedimento degli investimenti e dello sviluppo tecnico delle imprese, tutte le forme di ripartizione dei mercati o delle fonti di approvvigionamento, l'applicazione di condizioni ingiustificatamente diverse a categorie di imprenditori omogenee, l'imposizione nei contratti con i concorrenti di prestazioni prive di relazione con la natura del rapporto, sono classici comportamenti anticompetitivi. La loro funzione è di sostituire all'esercizio individuale e perciò stesso libero del potere di impresa, un potere esercitato collettivamente estraneo alle forme societarie nelle quali si esercita l'impresa collettiva ed esente dai controlli che la legge in proposito prevede. Tali pratiche rafforzano la posizione dei loro autori riducendo l'efficacia della concorrenza da parte degli esclusi ed eliminando quella tra i partecipi.

1.d. Va osservato ancora che la l. 287/1990, la quale ai sensi della prima parte dell'art. 1 deve essere letta come attuazione dell'art. 41 Cost., deve peraltro essere interpretata in base ai principi dell'ordinamento comunitario. Pertanto in armonia con la norma del Trattato (vedi quanto alla cosiddetta regola de minimis nel diritto comunitario della concorrenza causa Sirena n. 40/70, sentenza 18 febbraio 1971, e causa Volk n. 5/69, sentenza 9 luglio 1969) essa fa rilevare una dimensione quantitativa della intesa traducendola in carattere della stessa. La legge vieta le intese che abbiano per effetto o per oggetto di impedire, restringere o falsare "in maniera consistente" il gioco della concorrenza "all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante".

La norma ripete quasi letteralmente il tenore dell'art. 81 del Trattato, salvo che per la norma comunitaria la rilevanza quantitativa è data ovviamente dall'ambito comunitario. Ma ciò che conta rispetto al problema che ne occupa è il rilievo dimensionale della fattispecie, che si spiega con il fatto che oggetto della tutela della l. 287/1990, come già del Trattato, è appunto la struttura concorrenziale del mercato di riferimento, la quale ragionevolmente non viene messa in discussione da un comportamento che per quanto ontologicamente rispondente alla fattispecie di cui si tratta, per la sua dimensione, non incide significativamente sull'assetto che trova.

In definitiva, poiché, come è stato scritto argutamente, la legge non si occupa dell'intesa tra i barbieri di piccolo paese, il dato quantitativo conferma che oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio del concorrente ancorché questo possa essere riparato dalla repressione della intesa (cfr. quanto al pregiudizio al commercio comunitario, presupposto di applicabilità dell'art. 81, causa Grundig 58/64, sentenza 13 luglio 1966, e causa Montecatini, C 235/92, sentenza 8 luglio 1999, ex multis), bensì un più generale bene giuridico.

Tuttavia tale più ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato, non ignora la plurioffensività possibile del comportamento di vietato (cfr. Cassazione 827/1999). Un'intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell'autore o degli autori della intesa. Ciò spiega che la l. 287/1990 all'art. 33, che contiene tanto una norma di giurisdizione, quanto una norma di competenza, si preoccupi con quest'ultima di individuare anche il giudice dell'accertamento della nullità, che è il presupposto della eliminazione del pregiudizio in una prospettiva esplicitamente risarcitoria.

La legge infatti mentre affida al Giudice amministrativo (TAR del Lazio) la giurisdizione sulle impugnative avverso le deliberazioni della Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, stabilisce pure che "Le azioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione, delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi davanti alla Corte d'appello competente per territorio".

Alla Corte d'appello, dunque, deve rivolgersi chi allega il comportamento di mercato tenuto da un imprenditore tale da ledere la struttura concorrenziale del medesimo, e dunque ne chieda la dichiarazione di nullità presupposto dell'eventuale risarcimento (Cassazione 827/1999).

1.e. Va appena osservato che siffatta struttura della giurisdizione che comunque risale alla repressione della intesa appare datata, perché influenzata dalla impostazione che al momento, in cui la legge venne emanata era dominante. La previsione, che risale alla concezione del doppio binario di tutela di cui alla legge sul contenzioso amministrativo del 1865, n. 2248, artt. 4 e 5, non a caso appare coerente con quella contenuta nella legge comunitaria 142/1992 che, all'art. 13, regolando la tutela giurisdizionale conseguente alla violazione delle normativa comunitarie in materia di appalti pubblici, stabiliva che il risarcimento del danno poteva essere domandato al Giudice ordinario da parte di quegli che avesse ottenuto dal Giudice amministrativo l'annullamento dell'atto amministrativo.

Detta norma è stata abrogata dall'art. 35 u.c. del d.lgs. 80/1998 abrogazione confermata dall'art. 7, lett. c), della l. 205/2000), ma soprattutto l'assetto della giurisdizione ancora riconoscibile agli inizi degli anni novanta, è stato superato dalla legge e dalla giurisprudenza del giudice delle leggi (Corte Costituzionale 204/2000 e 281/2004). Ciò contribuisce a spiegare come, attribuendo al Giudice amministrativo la giurisdizione sull'atto di Agcm e dunque nell'ambito di questa il potere di dire se l'intesa affermata si è realizzata, la legge antitrust 287/2000 abbia voluto accorciare il giudizio di merito introdotto da una domanda di nullità e di conseguente risarcimento del danno stabilendo un unico grado innanzi alla Corte d'appello competente per territorio. Cosicché anche quegli che non ha partecipato al giudizio innanzi al TAR, perché non ha resistito alla impugnativa della sanzione irrogata da Agcm, proposta dall'affermato autore della intesa, o non vi ha potuto partecipare perché in quella sede era carente di interesse, si trova a perdere un grado di giudizio allorché si rivolge al Giudice ordinario. Situazione processuale che non trova ostacoli di carattere costituzionale (art. 125 Cost.), e che comunque appare coerente con l'esigenza di favorire la sollecita soluzione di controversie che attengono all'assetto del mercato.

1.f. Sembra a questo punto al collegio di potere esprimere talune conclusioni, utili alla soluzione dei quesiti ad esso sottoposti.

La diversità di ambito e di funzione tra la tutela codicistica dalla concorrenza sleale e quella innanzi detta della legge antitrust esclude si possa negare la legittimazione alla azione davanti al Giudice ordinario ai sensi dell'art. 33, n. 2, della l. 287/1990, al consumatore, terzo estraneo alla intesa. Contrariamente a quanto ritenuto da Cassazione 17475/2002, la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere.

Pare opportuno notare peraltro che mentre siffatta esclusione della legittimazione in parola non è prevista espressamente dalla legge, questa peraltro, all'art. 4, laddove prevede il potere discrezionale della Agcm di autorizzare un' intesa che possiede i caratteri che giustificherebbero il divieto, indica tra i presupposti della discrezionalità che fonda "il beneficio del consumatore". La legge dunque non ignora, nella materia della intesa, l'interesse del consumatore al punto da prevedere una ipotesi in cui esso,alla cui tutela la ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un "periodo limitato" addirittura da un allentamento del divieto del più classico comportamento anticoncorrenziale.

Il consumatore, che è l'acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene. Pertanto la funzione illecita di una intesa si realizza per l'appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente. E ciò quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito. A detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello della intesa che va a strutturare, giacché il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile.

Va detto pure, atteso il rilievo interpretativo dei principi dell'ordinamento comunitario nella materia, che la sentenza della Corte di Giustizia, Courage, (453/1999) tende ad ampliare l'ambito dei soggetti tutelati dalla normativa sulla concorrenza, in una prospettiva, sembra al collegio, che valorizza proprio le azioni risarcitorie, quali mezzi capaci di mantenere effettività alla struttura competitiva del mercato.

1.g. E' appena il caso di precisare dal momento che la sentenza impugnata sembra sovrapporre le due figure che quanto fin qui espresso non è contraddetto dalla considerazione dell'abuso di posizione dominante, che è fattispecie diversa da quella che rileva nella controversia e che dunque non viene in esame.

1.h. Nella delineata prospettiva dunque il contratto cosiddetto "a valle" costituisce lo sbocco della intesa, essenziale a realizzarne gli effetti. Esso in realtà, oltre ad estrinsecarla, la attua.

E' ben vero, come si fa rilevare in atti, che la legge vieta anche le intese che abbiano anche solo per "oggetto" la distorsione di cui si tratta, oltre che per "effetto", ma ciò si spiega in considerazione del doppio livello di intervento che essa prevede, quello amministrativo della Agcm e quello riparatorio di cui alla azione di nullità e risarcimento. L'autorità garante è organo di amministrazione, ancorché caratterizzato da ampiezza di poteri sui generis. Essa opera anche in vista dì un pericolo, e dunque in considerazione della esigenza economica di prevenire l'effetto distorsivo del fenomeno di mercato. Il giudice, che dirime controversie e non si occupa di fenomeni, può essere officiato solo in presenza o in vista almeno di un pregiudizio. Dunque innanzi alla Corte d'appello deve essere allegata un'intesa di cui si chiede la dichiarazione di nullità, ed altresì il suo effetto pregiudizievole, il quale rappresenta l'interesse ad agire dell'attore secondo i principi del processo, da togliere attraverso il risarcimento.

Il contratto cosiddetto "a valle", ovvero il prodotto offerto al mercato, del quale si allega, come nel caso di specie, la omologazione agli altri consimili prodotti offerti nello stesso mercato, è tale da eludere la possibilità di scelta da particolare del consumatore. La realizzazione consapevole di siffatta situazione rientra in modo strutturale nel comportamento oggettivo di mercato che giustifica la azione individuale di cui all'art. 33. Pertanto la previsione del risarcimento del danno sarebbe meramente retorica se si dovesse ignorare, considerandolo circostanza negoziale distinta dalla "cospirazione anticompetitiva" e come tale estranea al carattere illecito di questa, proprio lo strumento attraverso il quale i partecipi alla intesa realizzano il vantaggio che la legge intende inibire. Se un'intesa fosse ancora luogo nelle intenzioni dei partecipi e non avesse dato ancora ad alcun effetto, mentre vi sarebbe spazio, a parte la difficoltà dell'indagine, per la proibizione e la sanzione da parte di Agcm, giacché la legge, giova rammentare, vieta gli accordi che abbiano per oggetto oltre che per effetto la distorsione della concorrenza, non vi sarebbe interesse da parte di alcuno ad una dichiarazione di nullità ai sensi dell'art. 33 della l. 287/1990, la cui ratio è di togliere alla volontà anticoncorrenziale "a monte" ogni funzione di copertura formale dei comportamenti "a valle". E dunque di impedire il conseguimento del frutto della intesa consentendo anche nella prospettiva risarcitoria la eliminazione dei suoi affetti.

1.i. Non conduce a conclusione diversa nemmeno la considerazione della fattispecie restitutoria di cui all'art. 2033 c.c.

Come è noto essa si distingue dalla fattispecie risarcitoria di cui all'art. 2043 c.c. per l'assenza di qualunque profilo di colpa o dolo nell'accipiens (Cassazione 3060/1984). Orbene, una parte che chiede dichiararsi la nullità di una intesa, allega un fatto illecito nella cui struttura vi è l'elemento psicologico del dolo o della colpa. Pertanto, quale che sia la forma della domanda di ripristino della situazione patrimoniale che si assume lesa, essa prescinde dalla fattispecie di indebito oggettivo. Quegli che chiede la restituzione di ciò che ritiene di avere pagato in esecuzione di un negozio concluso per effetto della intesa nulla, allega pur sempre quest'ultima e l'impossibilità giuridica che essa produca effetti.

Ritiene pertanto la Corte, poiché la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall'ordinamento giuridico integra, almeno potenzialmente il danno ingiusto ex art. 2043 c.c. (Sezioni unite, 500/1999) che colui che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l'effetto di una collusione a monte, ancorché non sia partecipe ad un rapporto di concorrenza con gli autori della collusione, ha a propria disposizione, l'azione di cui all'art. 33 della l. 287/1990.

Cosicché, pare utile precisare conclusivamente, a qualificare la domanda ed a determinare la competenza nel caso che ne occupa è la richiesta di accertamento di una intesa e quindi di dichiararla nulla presupposto della domanda di eliminarne gli effetti anche attraverso l'eliminazione del sovrapprezzo.

Pertanto, poiché le sentenze del Giudice di pace ancorché emesse secondo equità sono soggette al rispetto delle norme di rito tra le quali quelle che attengono alla competenza del giudice (Cassazione 10486/2001 ex multis) e dei principi informatori della materia (Cassazione 743/2005) quali nella specie quelli che definiscono l'intesa vietata e la sua struttura e rispetto a questa, le posizioni dei terzi, il motivo esaminato è fondato. Pertanto, la competenza a conoscere della causa, è della Corte d'appello di Napoli, come peraltro, sia pure in subordine, chiede la stessa ricorrente. Ciò in quanto il privato ha adito il Giudice di pace di Avellino ai sensi degli art. 19 e 20 c.p.c., come pure afferma la ricorrente, ovvero invocando i fori alternativi da esse norme previsti.

2. La trattazione del secondo motivo mediante il quale Unipol lamenta la violazione degli artt. 320, 183, 184 c.p.c., è assorbita dall'accoglimento del primo motivo giacché la questione è rimessa al giudizio davanti al giudice dichiarato competente.

3. La trattazione del terzo motivo mediante il quale viene allegata la violazione dell'art. 1469-bis c.c., relativamente alla ritenuta competenza del foro del consumatore nonché quella del quarto e del quinto motivo mediante i quali la parte ricorrente allega la violazione degli artt. 2033, 1322, 1372 c.c., la inadeguatezza della motivazione sui relativi punti, la violazione dell'art. 113 e 115 c.p.c. ed ancora dell'art. 2033 c.c., sono parimenti assorbite.

4. Va pertanto accolto il ricorso e va dichiarata la competenza della Corte d'appello di Napoli. Ricorrono giusti motivi per compensare le spese tra le parti.

P.Q.M.

La Corte di cassazione, Sezioni unite Civili, accoglie il primo motivo del ricorso, dichiara assorbita trattazione dei restanti motivi, e dichiara la competenza della Corte d'appello di Napoli. Compensa le spese del giudizio tra le parti.

 

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