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Magistrati e funzionari giudiziari - Erronea dichiarazione di estinzione del processo esecutivo - Danno risarcibile per il creditore procedente

Responsabilita' civile - magistrati e funzionari giudiziari - Erronea dichiarazione di estinzione del processo esecutivo - Danno risarcibile per il creditore procedente - La condotta del giudice dell'esecuzione che, erroneamente dichiarando estinto il processo esecutivo, consenta al debitore esecutato di spogliarsi dei beni pignorati sottraendoli all'esecuzione, comporta per il creditore procedente un danno risarcibile, il quale consiste in una mera perdita di chance , se i beni inutilmente pignorati non erano i soli su cui il creditore poteva soddisfarsi, e nella perdita del ricavato eventuale della vendita coattiva (danno futuro, di lucro cessante), nel caso contrario. Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 12960 del 14/06/2011

Responsabilita' civile -  magistrati e funzionari giudiziari - Erronea dichiarazione di estinzione del processo esecutivo - Danno risarcibile per il creditore procedente - La condotta del giudice dell'esecuzione che, erroneamente dichiarando estinto il processo esecutivo, consenta al debitore esecutato di spogliarsi dei beni pignorati sottraendoli all'esecuzione, comporta per il creditore procedente un danno risarcibile, il quale consiste in una mera perdita di "chance", se i beni inutilmente pignorati non erano i soli su cui il creditore poteva soddisfarsi, e nella perdita del ricavato eventuale della vendita coattiva (danno futuro, di lucro cessante), nel caso contrario. Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 12960 del 14/06/2011

Corte di Cassazione, Sez. 3, Sentenza n. 12960 del 14/06/2011

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Aldo Ti.., titolare della ditta individuale A.C.F., chiese al Tribunale di Perugia che, accertata la responsabilità civile del giudice dell'esecuzione del tribunale di Fermo (il quale, con inescusabile colpa grave e senza che ne ricorressero le condizioni, aveva dichiarato estinto il processo di espropriazione forzata immobiliare da lui introdotto nei confronti del debitore Co.. Giovanni, cagionando in tal modo, per effetto dell'alienazione successiva a terzi dei beni pignorati liberi da ogni peso e vincolo, la sottrazione del compendio alla garanzia del creditore), la Presidenza del Consiglio dei Ministri fosse condannata a risarcirgli i danni, reclamati nella misura di L. 93.503.006.
2.- Il tribunale condannava la convenuta a pagare all'attore la somma di Euro 35.387,51, oltre rivalutazione, interessi legali e spese di lite.
3.- Sul gravame della Presidenza del Consiglio dei Ministri decideva la Corte d'appello di Perugia, che, in parziale riforma della sentenza impugnata, riduceva ad Euro 21.232,51, oltre accessori, la somma dovuta ad Aldo Ti.. e, compensate per un terzo le spese di entrambi i gradi, condannava l'appellante al pagamento dei due terzi restanti.
4.- Per la cassazione della sentenza d'appello ha proposto ricorso Aldo Ti.., che ha affidato l'impugnazione a due mezzi, cui ha resistito con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.

MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Col primo motivo di ricorso, denunciando il vizio di motivazione in ordine alla determinazione del danno, il ricorrente critica la decisione di secondo grado nelle parti in cui il giudice del merito a) aveva affermato che in una procedura esecutiva il prezzo di vendita dei beni pignorati normalmente è inferiore a quello base di stima; b) aveva dato per certo che la procedura esecutiva si sarebbe potuta concludere soltanto con la vendita, senza considerare affatto la diversa ipotesi dell'assegnazione al creditore dei beni pignorati;
c) aveva proceduto, applicando l'art. 1226 cod. civ., senza che ne ricorressero i presupposti, a valutazione equitativa del danno a lui derivato.
Col secondo motivo, denunciando la violazione delle norme di cui agli artt. 1226, 2043, 2058 e 2697 cod. civ., il ricorrente assume che erroneamente i giudici dell'appello avrebbero qualificato il danno come derivante da c.d. perdita di chance e proceduto alla liquidazione del danno in applicazione della disciplina prevista dall'art. 1226 cod. civ..
1.2.- I due motivi, che vanno esaminati congiuntamente poiché connessi, non possono essere accolti.
Ancorché sia da condividere l'affermazione di partenza del giudice di merito, secondo cui il bene pignorato non è un valore che entra a far parte del patrimonio del creditore procedente, per cui è da escludere certamente che la sottrazione all'esecuzione del bene pignorato possa essere intesa come decremento del patrimonio del creditore procedente in misura corrispondente al valore di mercato del bene medesimo, osserva questa Corte di legittimità che detta sottrazione non integra, sempre ed in ogni caso, per il creditore pignorante una perdita di chance.
Premesso, infatti, che la chance è la mera possibilità di conseguire un vantaggio economico o comunque un risultato utile (ex plurimis: Cass. 4 marzo 2004, n. 4400), occorre verificare se, nel caso di specie, si sia avuta la perdita di un vantaggio economico futuro, come sostenuto dal ricorrente, ovvero soltanto la perdita della mera possibilità di conseguirlo (cfr. Cass. 17 aprile 2008, n. 10111). Più specificamente, anche il danno patrimoniale da perdita di chance è un danno futuro, che però non può farsi coincidere con il vantaggio economico che si sarebbe conseguito se il fatto illecito non si fosse verificato, ma soltanto con la concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, la cui perdita è risarcibile quando non si tratti di una mera aspettativa di fatto ma di un'entità patrimoniale a sè stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione (cfr., tra le altre, Cass. 12 agosto 2008, n. 21544) .
Nel caso in esame, occorre effettuare una distinzione che non risulta esplicitata nella motivazione della sentenza impugnata e che è invece necessaria per cogliere il senso di alcuni passaggi fondamentali di detta motivazione.
Se si ha riguardo al bene pignorato quale oggetto di garanzia, come fatto dalla Corte d'Appello di Perugia - da intendersi specificamente quale garanzia patrimoniale generica ex art. 2740 cod. civ., poiché diversa è invece la posizione del creditore ipotecario - e quindi al processo per espropriazione immobiliare come uno dei diversi strumenti che l'ordinamento appresta al creditore per ottenere la soddisfazione coattiva del proprio credito, il venir meno di questa possibilità di soddisfacimento del credito a seguito dell'estinzione del processo esecutivo (e della conseguente perdita del bene) costituisce un danno da perdita di chance. Infatti, il presupposto è - come pure evidenziato nella sentenza impugnata - che il credito originario sia "rimasto intatto ed esigibile", nonché occorre aggiungere - suscettibile di essere soddisfatto mediante esecuzione su altri beni, mobili o immobili, o crediti, del debitore, allo stesso modo oggetto di garanzia ex art. 2740 cod. civ.. In tale prospettiva, viene in rilievo la mera opportunità di conseguire un risultato utile, che il creditore pignorante ha perso quando è venuto meno il processo esecutivo immobiliare già avviato. Se invece si ha riguardo al bene pignorato come unico bene sul quale il creditore si sarebbe potuto soddisfare, nel senso che, pur essendo rimasto egli titolare di un diritto di credito esigibile, non vi siano altri beni o crediti del debitore su cui agire per la soddisfazione coattiva di tale credito, allora rileva la perdita del vantaggio economico, in sè considerato, che il creditore pignorante avrebbe conseguito se il bene fosse rimasto assoggettato al vincolo del pignoramento e quindi la procedura esecutiva avesse avuto il suo esito fisiologico. Proprio perché tale esito (sia che si tratti di vendita coattiva sia che si tratti di assegnazione al creditore) non è, in sè, eventuale, ma è il naturale sviluppo del processo esecutivo fondato sulle norme che lo regolano, l'impossibilità di concludere fisiologicamente il processo (a causa del fatto, accertato come illecito, che sia stato irregolarmente estinto) comporta un danno del quale deve ritenersi prossima alla certezza la verificazione (anche se non certa in assoluto poiché non si può escludere in astratto il verificarsi di un evento, anche patologico, tale da comportare l'estinzione anticipata della procedura esecutiva), pur se incerto nel suo ammontare.
Orbene, dalla motivazione della sentenza impugnata si evince che, malgrado gli argomenti volti a sorreggere l'affermazione della sussistenza di un danno da perdita di chance, la ratio decidendi sia stata poi nel senso della liquidazione del danno futuro, consistito nella perdita del ricavato eventuale della vendita coattiva: in conclusione, i giudici d'appello, pur avendo preso le mosse dal primo tipo di danno, configurabile in astratto, hanno poi liquidato il danno in concreto tenendo conto del secondo tipo di danno, nel presupposto - insindacabile da questa Corte poiché oggetto dell'apprezzamento dei fatti riservato dal giudice del merito - che il creditore Ti.. (quale titolare della ditta individuale A.C.F.) avesse perso definitivamente la possibilità di soddisfare il proprio credito nei confronti del debitore Co...
2. - Configurato come danno da perdita del ricavato eventuale di una vendita coattiva, esso non è danno presente - proprio perché, come evidenziato anche dalla premessa della sentenza impugnata, il bene pignorato irrimediabilmente perduto per il creditore pignorante non era comunque parte del suo patrimonio - ma è danno futuro, perché relativo alla perdita di un vantaggio economico che si sarebbe avuto soltanto all'esito della procedura esecutiva. Inoltre, trattasi non di danno emergente, ma di lucro cessante, perché il creditore pignorante non ha chiesto di essere risarcito degli esborsi invano sopportati per avviare la procedura esecutiva, ma soltanto della perdita del ricavato, col quale avrebbe conseguito la soddisfazione, totale o parziale, del proprio credito a conclusione della procedura esecutiva.
Peraltro, il danno futuro, in termini di lucro cessante, per un verso, non è un danno potenziale - qual è il danno da perdita di chance - ma, per altro verso, non è nemmeno così certo come il danno che si è già verificato nel momento del giudizio, sicché la sua liquidazione deve avvenire secondo un criterio di rilevante probabilità (cfr. Cass. 27 aprile 2010, n. 10072).
Il criterio di cui si è appena detto è applicabile anche al caso di specie, poiché la perdita patrimoniale subita dal creditore pignorante, anche se pressoché certa nell'an, è oltremodo incerta nel quantum, sicché alla relativa liquidazione vanno applicati i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte con riferimento alla liquidazione del danno futuro.
Orbene, la sentenza impugnata, pur avendo qualificato il danno in termini di perdita di chance, ha di fatto poi applicato il criterio di liquidazione equitativa, presupponendo, come detto sopra, non tanto un danno potenziale, quanto il danno derivante dalla perdita del risultato economico che sarebbe stato conseguibile con la vendita coattiva, quindi esattamente il danno del cui risarcimento si tratta. 2.1.- Ed invero, contrariamente all'assunto del ricorrente, secondo cui l'art. 1226 cod. civ. non sarebbe applicabile al caso di specie, esso costituisce (in quanto richiamato dall'art. 2056 cod. civ., per la responsabilità extracontrattuale) proprio la norma di riferimento, dal momento che la giurisprudenza univoca ritiene obiettivamente impossibile la prova completa del danno futuro, considerando assolutamente legittimo il ricorso al criterio equitativo.
Più in particolare, mentre per il danno presente la prova non può essere che quella storica, direttamente comprovante l'entità della diminuzione patrimoniale o del mancato guadagno, per il danno futuro la prova è necessariamente indiretta, consistente cioè in una serie di elementi e circostanze di fatto, da cui il giudice possa desumere, per via appunto indiretta, l'entità del danno. La prova è quindi, di regola, presuntiva; la tecnica di decisione è quella dell'apprezzamento equo, poiché non ha ad oggetto direttamente il quantum del danno, ma una serie di circostanze sulla base delle quali possa ragionevolmente ritenersi probabile il danno in un determinato ammontare.
2.2.- La liquidazione equitativa del danno compiuta dal giudice del merito è sindacabile in cassazione soltanto se la sentenza non dia adeguatamente conto del processo logico attraverso il quale si è pervenuti alla liquidazione, con l'indicazione dei criteri assunti a base del procedimento valutativo (cfr., tra le tante, Cass. 7 gennaio 2009, n. 50) e se la relativa valutazione risulti incongrua rispetto al caso concreto e la determinazione del danno sia palesemente sproporzionata per difetto o per eccesso (cfr. Cass. 14 luglio 2004, n. 13066; 8 novembre 2007, n. 23304).
La sentenza oggetto della presente impugnazione ha indicato il processo logico e valutativo seguito ed è pervenuta ad un risultato che, contrariamente all'assunto del ricorrente, non può affatto reputarsi sproporzionato per difetto.
2.3.- Quanto al criterio assunto a base del processo di valutazione e liquidazione del danno, la Corte di merito ha correttamente operato quando, pur prendendo le mosse dalla stima del valore dei beni pignorati compiuta dal consulente tecnico d'ufficio, ha riformato la sentenza appellata che aveva commisurato il danno esattamente a tale valore. Infatti, tale criterio sarebbe stato corretto se si fosse trattato di liquidare un danno presente, per di più emergente, corrispondente cioè alla perdita di un bene già presente nel patrimonio del soggetto danneggiato. Nel caso di specie, come detto, il danno è futuro e si connota come danno da lucro cessante, sicché è corretto il riferimento - fatto nella sentenza impugnata - ad una serie di fattori che, pur essendo soltanto probabili (come d'altronde soltanto probabile, anche se altamente probabile, è il danno di che trattasi) , sono tuttavia, in sè considerati, ragionevolmente prevedibili, secondo l' id quod plerumque accidit, tali cioè da non poter essere trascurati nel compiere una valutazione fondata sull'equo apprezzamento. Quest'ultimo, infatti, impone al giudice di valutare le peculiarità del fatto dannoso, da cui possa indirettamente inferire il quantum del danno risarcibile. Pertanto, la tecnica di giudizio non si basa, come presupposto dal ricorrente, sulla prova diretta - che, nel caso di specie, sarebbe data dall'esito della CTU - bensì sulla prova indiretta che si avvale di tale esito, ma anche di presunzioni e fatti notori.
I fattori considerati dalla Corte d'Appello come incidenti nel senso della probabile riduzione del ricavato della vendita forzata rispetto alla stima del CTU (in particolare "la partecipazione all'incanto di uno o più interessati" e "la presenza di altri creditori da soddisfare sul ricavato dalla vendita del medesimo bene") sono coerenti con le modalità di svolgimento del processo esecutivo, poiché, per un verso, è ovvio che il risultato conseguibile è variabile dipendente dal numero degli interessati alla vendita (offerenti e/o partecipanti alla gara o all'incanto) e, per altro verso, è possibile l'intervento, fino all'udienza di autorizzazione alla vendita (che, nel caso di specie, non risulta essere stata tenuta, sicché, anche se - come rilevato dal ricorrente - non vi erano creditori intervenuti, gli interventi erano ancora possibili), di altri creditori che concorrano con il pignorante alla distribuzione del ricavato (arg. ex art. 564 c.p.c.). Inoltre, il dato peculiare - considerato dal giudice d'appello - che nel processo esecutivo estinto per colpa del giudice dell'esecuzione del tribunale di Fermo fossero stati pignorati soltanto beni proquota (più specificamente, nella misura di un quarto), essendo il debitore esecutato comproprietario, non è affatto neutro o addirittura equivoco, come vorrebbe il ricorrente: esso infatti presuppone una complicazione del processo esecutivo considerata dal legislatore nell'art. 599 cod. proc. civ., e segg., e che, già di per sè, comporta un incremento di costi e di tempi che incidono sul risultato probabile del processo. Inoltre, proprio la disciplina prevista per l'espropriazione di beni indivisi prevede quale ipotesi ben più che probabile - equiparata a quella della vendita di quota nel testo dell'art. 600 c.p.c., vigente prima delle modifiche apportate a far data dal 1 marzo 2006; addirittura normale, in caso di impossibilità di divisione in natura, dopo tali modifiche - il ricorso alla divisione a norma del codice civile: la divisione endoesecutiva è, a sua volta, di esito incerto (poiché non presenta soltanto la variabile dell'acquisto della quota da parte dei comproprietari, come vorrebbe il ricorrente, ma da luogo ad un procedimento divisorio incidentale dai molteplici possibili sbocchi, ivi compreso quello della vendita al pubblico dell'intero) e, per di più, comporta considerevoli oneri economici per il creditore.
2.4.- Il processo di divisione (non endoesecutivo) è peraltro necessitato, nell'alternativa, prospettata dal ricorrente, dell'assegnazione della quota al creditore pignorante ai sensi degli artt. 588 e 590 cod. proc. civ..
Ed, invero, sebbene la Corte d'Appello non abbia considerato l'eventualità dell'assegnazione, non si tratta affatto di un vizio di motivazione rilevante ai sensi dell'art. 360 cod. proc. civ., n. 5, come denunciato dal ricorrente.
Occorre premettere che, ai fini della configurabilità del vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario che "il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l'efficacia probatoria delle risultanze sulle quali il convincimento del giudice è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base, ovvero che si tratti di un documento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione, e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata" (cfr. così Cass. n. 14304/2005, ma nello stesso senso, tra molte, anche Cass. n. 10156/2004, n. 5473/2006, n. 21249/2006, n. 9245/2007).
Nel caso di specie, si tratta di un elemento che la Corte d'Appello avrebbe dovuto porre a base di un argomentare del tutto presuntivo, poiché non è affatto certo che, anche nell'ipotesi di incanto deserto, il creditore pignorante avrebbe avanzato l'istanza di assegnazione (dal momento che non si può escludere che, tenuto conto dell'andamento del mercato alla data dell'ordinanza di vendita e/o alla data dell'incanto andato deserto - che, secondo l'art. 588 cod. proc. civ., nel testo che sarebbe stato applicabile al caso di specie, rilevava quale termine di decorrenza dei dieci giorni entro i quali formulare l'istanza di assegnazione - il creditore non avrebbe più trovato convenienza alcuna a formulare detta istanza), ne' è certo che il creditore procedente non avrebbe dovuto corrispondere un conguaglio ex artt. 589 e 590 cod. proc. civ. (poiché il ricorrente si è limitato a dedurre di vantare un credito superiore al valore di stima dei beni pignorati, ma non ha affatto indicato in quali atti dei precedenti gradi di merito avrebbe fornito i relativi elementi di prova, sicché la censura della sentenza di merito per la parte in cui non ha tenuto conto del valore del credito per il quale la ditta ACF di Aldo Ti.. agiva è, sotto questo profilo, inammissibile: cfr. Cass. 28 luglio 2008 n. 20518; 22 luglio 2005 n. 15422). Proprio per gli elementi di incertezza appena evidenziati, nonché per l'ulteriore dato, invece certo, della necessità di fare ricorso al procedimento di scioglimento della comunione in caso di assegnazione di quota (con i relativi costi connessi), è da escludere che, se la Corte d'Appello avesse considerato l'eventualità dell'assegnazione dei beni pignorati al creditore pignorante, sarebbe pervenuta con certezza ad una diversa quantificazione del danno, specificamente ad una quantificazione più favorevole al ricorrente. Quindi, è da escludere che il vizio di motivazione sia riconducibile alla previsione del richiamato art. 360 cod. proc. civ., n. 5.
2.5.- Quanto alla considerazione sulla quale pure si è intrattenuta la Corte d'Appello, vale a dire che il prezzo di vendita dei beni pignorati di norma non coincide col loro valore di mercato, si tratta di una massima d'esperienza, cui il giudice di merito ben può fare ricorso quando - come nel caso di specie - trova la sua base in un'uniformità di accadimenti, essendo essa tratta dalla reiterata osservazione di fenomeni naturali o -come nel caso di specie - socioeconomici (da ultimo, Cass. 28 ottobre 2010, n. 22022), in modo che essa possa essere presa a regola per una molteplicità di casi futuri. Orbene, la proposizione in parola, che costituisce una delle ragioni della sentenza impugnata, risponde all'esposta nozione di massima d'esperienza, poiché non avrebbe trovato, con riguardo all'epoca in cui si svolsero i fatti per cui è causa, agevoli smentite, se non altro se intesa nel senso che, nella generalità dei casi e quindi nella stragrande maggioranza dei processi esecutivi, il ricavato della vendita fosse inferiore al prezzo di mercato del bene pignorato: ciò è tanto vero che la principale preoccupazione del legislatore della riforma del processo esecutivo attuata con il D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazione nella L. 14 maggio 2005, n. 80, fu, per quanto risulta dai lavori preparatori ma anche dalle modifiche apportate alle norme che disciplinano gli snodi fondamentali della fase liquidativa (tra cui quelle sull'informazione ex art. 490 cod. proc. civ., sulla custodia ex art. 560 cod. proc. civ. e sulla stabilità della vendita ex art. 187 bis disp. att. cod. proc. civ.: cfr. Cass. S.U. 12 gennaio 2010, n. 262, in motivazione), proprio quella di aprirsi al mercato e di consentire, così, che il risultato economico della vendita coattiva fosse il più vicino possibile al valore effettivo dei beni pignorati - tutto questo, evidentemente, nel presupposto che il sistema originario del codice di rito non consentisse, nella normalità dei casi, di perseguire tale risultato.
A quanto detto si aggiunga che è lo stesso legislatore, sia ante che post riforma, a reputare non eccezionale l'eventualità della riduzione del prezzo base fissato tenendo conto della stima dell'esperto, tanto è vero che, per un verso, sia in base al vecchio che in base al nuovo testo dell'art. 591 cod. proc. civ., il giudice dell'esecuzione può ribassare detto prezzo; per altro verso, l'art. 589 cod. proc. civ., prevede che l'istanza di assegnazione vada fatta tenendo sempre conto della stima ex art. 586 cod. proc. civ., anche quando vi siano stati uno o più ribassi per incanti andati deserti (con ciò dimostrandosi, ancora una volta, che il legislatore assume come normale la (ri)fissazione della vendita a prezzo ribassato).

2.6.- La Corte d'Appello di Perugia, tenendo conto della regola risultante dalla massima di esperienza predetta e dei diversi fattori incidenti sul risultato conseguibile con la vendita coattiva dei beni pignorati, ha ridotto la stima del CTU del 40%, compiendo così un apprezzamento di fatto che, in quanto adeguatamente motivato in merito ai criteri di liquidazione seguiti, non è sindacabile da questa Corte.
Il ricorso, pertanto, è rigettato.
3.- La peculiarità delle questioni giuridiche affrontate e la necessità di correzione della motivazione della sentenza impugnata rendono di giustizia la compensazione delle spese del giudizio di Cassazione.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 15 aprile 2011.
Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2011

 

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