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Contratti pubblici – interdittiva antimafia - Elenco fornitori – white list

Contratti pubblici – interdittiva antimafia - Elenco fornitori non soggetti ad infiltrazioni mafiose – white list – interdittiva antimafia – presupposti – vicinanza con ambienti di criminalità organizzata. Cons. St., sez. III, 3 aprile 2019, n. 2211, commento a cura dell’Avv. Silvia Albanese.

Fatto. Con ricorso presentato dinanzi al TAR, il ricorrente impugnava il diniego di iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa di cui all'art. 1, comma 52, l. n. 190 del 2012 (c.d. white list), opposto a causa della contiguità con gli ambienti della criminalità organizzata.

A seguito della sentenza di rigetto dei giudici di primo grado, il ricorrente proponeva ricorso al Consiglio di Stato.

Decisione. Il Consiglio di Stato rigetta il ricorso.

In via preliminare, il Collegio chiarisce che i principi che regolano il diniego di iscrizione nell'elenco dei fornitori, prestatori di servizi ed esecutori non soggetti a tentativo di infiltrazione mafiosa (c.d. white list) sono gli stessi che regolano l’interdittiva antimafia.

In particolare, si tratta di strumenti volti a salvaguardare l’ordine pubblico, la libera concorrenza e il buon andamento della pubblica amministrazione.

Le disposizioni relative all'iscrizione nella c.d. white list, peraltro, formano un corpo normativo unico con quelle dettate dal codice antimafia per le relative misure antimafia (comunicazioni ed informazioni), vietando all'interprete una lettura atomistica, frammentaria e non coordinata dei due sottosistemi.

E, come ribadito anche recentemente dallo stesso Consiglio di Stato (cfr. Cons St. 30 gennaio 2019, n. 758), l’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa.

Dal punto di vista probatorio, non si richiede la certezza al di la di ogni ragionevole dubbio, come nel diritto penale, ma al contrario è sufficiente che il pericolo sia provato sulla base di una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non” il pericolo di infiltrazione mafiosa.

In altri termini, il pericolo di infiltrazione mafiosa è la probabilità che si verifichi l’evento: per adottare l’informativa antimafia è, quindi, sufficiente dimostrare la sussistenza di elementi sintomatici-presuntivi dai quali sia deducibile il pericolo di ingerenza mafiosa.

Secondo il Collegio, questo quadro delineato per l’interdittiva antimafia è applicabile anche all’iscrizione nella white list; ciò significa che anche per il diniego di iscrizione nella white list è sufficiente il pericolo di infiltrazione mafiosa fondato su un numero di indizi tale da rendere logicamente attendibile la presunzione dell’esistenza di un condizionamento da parte della criminalità organizzata.

Applicando tali principi al caso in esame, il Consiglio di Stato ritiene che la frequentazione di soggetti vicini alla criminalità organizzata, e gli ulteriori indizi fattuali emersi, siano elementi sufficienti per negare l’iscrizione nella c.d. white list.

Sul punto, la giurisprudenza è consolidata nel ritenere che l’amministrazione possa dare rilievo alle contiguità con ambienti di criminalità organizzata quando il rapporto presenti natura, intensità e altre caratteristiche tali da poter ritenere, sulla base della regola del “più probabile che non”, che le decisioni sull’attività dell’impresa possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia.

Da ciò emerge che se l’azienda opera nelle vicinanze di persone inserite in ambienti della criminalità organizzata e in Comuni di tale zona, allora certamente il pericolo di permeabilità della singola impresa agli interessi della criminalità organizzata di stampo mafioso è maggiore.

Il Collegio ricorda, inoltre, che la criminalità organizzata ormai si insinua nell’economia con plurime strategie per controllare il settore degli appalti pubblici.

Pertanto, l’esiguo numero di gare pubbliche aggiudicate da parte della società non è requisito idoneo ad escludere la contiguità con esponenti della malavita organizzata, ma al contrario potrebbe essere un modo per sottrarsi al controllo delle forze di contrasto al fenomeno corruttivo, senza rinunciare ad una fonte di reddito pulita.

In conclusione, sulla base dei summenzionati principi il Consiglio di Stato respinge il ricorso.