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Doveri complementari all'esercizio della professione

Doveri complementari all'esercizio della professione forense a cura di Carlo Bartolini - Avvocato del Foro di Tivoli - Relazione al convegno di deontologia tenuta al Teatro Manzoni il 16-12-2011

L'anno scorso abbiamo parlato dei doveri inerenti l'esercizio della professione forense; quest'anno ci soffermeremo sui doveri complementari all'esercizio della professione forense.

Questi doveri si rinvengono nel codice deontologico, che abbiamo visto essere norma di rango secondario, nei regolamenti del CNF, anch'essi di rango secondario, e nelle norme di legge, di rango primario.

Il CNF trae la potestà disciplinare dall'art. 38 della legge professionale, il R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, che ha compiuto 78 anni e qui inizia il gioco dell'oca: secondo il comma 5 bis dell'art. 3 del Decreto Legge 13 agosto 2011 n. 138, come modificato dall'art. 10 della Legge di Stabilità 12 novembre 2011 n. 183, il R.D.L. anzidetto sarebbe dovuto andare in pensione il 16 agosto 2012 in quanto sarebbe stato riformato con un D.P.R. entro dodici mesi decorrenti dal 16 agosto 2011, data di entrata in vigore del D.L. 138/2011, in quanto con l'entrata in vigore del D.P.R. le norme vigenti sugli ordinamenti professionali sarebbero state abrogate; il comma 5 bis dell'art. 3 del D.L. n. 138/2011 è stato modificato dal decreto Salva Italia n. 201/2011 che ha indicato come data finale il 13 agosto 2012 per l'emanazione del D.P.R., sempre ferma l'abrogazione delle norme degli ordinamenti professionali; in sede di emendamenti al Decreto Salva Italia, il testo approvato alla Camera prevede un nuovo comma 5 bis ed introduce un comma 5 ter in cui gli ordinamenti sono salvati, atteso che l'abrogazione riguarda solo le norme in contrasto con il comma 5 lettere da a) a g).

Tra i principali doveri complementari che si rinvengono nel codice deontologico si segnala il dovere di adempimento previdenziale e fiscale, previsto dall'art. 15.

La collocazione dell'art. 15 nel titolo I, dedicato ai principi generali, lascia chiaramente intendere l'importanza di questo dovere il cui adempimento permette il funzionamento delle istituzioni ordinistiche (CNF e COA territoriali) e del sistema previdenziale dell'Avvocatura.

L'avvocato deve provvedere con regolarità, e non saltuariamente, e tempestività, ovvero nel rispetto dei termini stabiliti, all'adempimento di tali doveri.

Gli adempimenti dovuti agli organi forensi riguardano il pagamento della tassa annuale che può essere imposta ai sensi dell'art. 7 del decreto legislativo luogotenenziale n. 382 del 1944.

Gli adempimenti previdenziali constano:

a) nell'obbligo di comunicare l'ammontare del reddito netto professionale e del volume di affari, anche se negativo (art. 17 legge 576/1980). L'assolvimento di tale obbligo permette di accertare la continuità della professione e l'iscrizione d'ufficio ove l'avvocato non vi provveda a domanda, qualora il reddito sia superiore a quello stabilito dalla Cassa;

b) nel pagamento dei contributi (artt. 10 e 11 legge 476/1980).

L'avvocato che non corrisponde i contributi agli organi forensi può essere sospeso dall'esercizio della professione a norma dell'art. 2 della legge 3 agosto 1949 n. 536; la sospensione è revocata all'esito del pagamento.

Anche l'avvocato che non ottempera all'obbligo di comunicazione alla Cassa può essere sospeso ai sensi della legge n. 536/49 richiamata dall'art. 17 della legge n. 576/80.

L'obbligo di comunicazione alla Cassa è ineludibile; è un fatto oggettivo che fa scattare tanto la sospensione quanto la contestazione disciplinare, salvo che si sia in presenza di un factum principis o di un evento oggettivo che abbia impedito l'assolvimento dell'incombente (ad esempio un lungo ricovero in ospedale, un'alluvione, un terremoto ecc.).

Lo scorso anno abbiamo in maniera approfondita esaminato tanto il procedimento disciplinare quanto la sospensione speciale ex legge 536/1949.

La chiamo speciale per non confonderla con la sospensione cautelare che abbiamo visto essere un provvedimento precauzionale e con quella ordinaria conseguente all'irrogazione della sanzione disciplinare.

Viceversa il mancato pagamento dei contributi agli organi forensi, quanto il mancato o parziale pagamento dei contributi alla Cassa può essere oggetto di valutazione tanto in sede disciplinare quanto in sede di sospensione speciale.

Si pensi all'avvocato che, per ragioni di salute, dimostri di non aver guadagnato.

Orbene, in tutti questi casi soccorre l'art. 3 del Codice Deontologico che, al secondo comma della regola, prevede che oggetto di valutazione è il comportamento complessivo dell'incolpato.

Il terzo obbligo, quello fiscale, si estrinseca nel presentare denunce fiscali veritiere che presuppongono logicamente l'assolvimento dei previsti adempimenti tra i quali quello di emettere fatture e nel pagare le imposte.

Anche qui la distinzione che è stata fatta a proposito dei contributi previdenziali.

Omessa fatturazione e omessa dichiarazione sono dati ineludibili, salvo l'intercorrenza del factum principis; il mancato pagamento delle imposte può essere valutato dagli organi disciplinari.

L'art. 2 comma quinto del D.L. n. 138/2011, entrato in vigore il 16 agosto 2011, introduce la seguente norma:

“All'articolo 12 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, dopo il comma 2-quinquies, sono inseriti i seguenti:

“2-sexies. Qualora siano state contestate a carico di soggetti iscritti in albi ovvero ad ordini professionali, nel corso di un quinquennio, quattro distinte violazioni dell'obbligo di emettere il documento certificativo dei corrispettivi compiute in giorni diversi, è disposta in ogni caso la sanzione accessoria della sospensione dell'iscrizione all'albo o all'ordine per un periodo da tre giorni ad un mese. In caso di recidiva, la sospensione è disposta per un periodo da quindici giorni a sei mesi. In deroga all'art. 19, comma 7, del decreto legislativo 18 docembre1997, n. 472, il provvedimento di sospensione è immediatamente esecutivo. Gli atti di sospensione sono comunicati all'ordine professionale ovvero al soggetto competente alla tenuta dell'albo affinché ne sia data pubblicazione sul relativo sito internet. Si applicano le disposizioni dei commi 2-bis e 2-ter.

2-septies. Nel caso in cui le violazioni di cui al comma 2-sexies siano commesse nell'esercizio in forma associata di attività professionale, la sanzione accessoria di cui al medesimo comma è disposta nei confronti di tutti gli associati.”.

In sostanza, a) quattro contestazioni (e non accertamenti definitivi) per violazioni compiute in giorni diversi nell'arco del quinquennio; b) sospensione esecutiva; c) estensione della sospensione a tutti i componenti di uno studio associato; d) pubblicazione della sospensione da parte del Consiglio dell'Ordine sul proprio sito internet.

Per quanto riguarda la posizione del Consiglio dell'Ordine, ritengo che non possa opporsi alla pubblicazione della sospensione sul sito internet; è un atto dovuto conseguente alla determinazione assunta dal Ministero delle Finanze, ovvero dalla Direzione Regionale dell'Agenzia delle Entrate.

Il problema si pone per i Consigli dell'Ordine che non dovessero avere un sito internet e quindi se vi sia un obbligo per i COA territoriali di avere un sito internet.

Invero l'art. 32 della legge 69/2009 si riferisce alle amministrazioni pubbliche e agli enti pubblici obbligati.

Non mi sembra che i COA territoriali abbiano questo obbligo.

Ritengo che in pendenza del procedimento di accertamento il Consiglio debba procedere all'apertura del procedimento disciplinare, atteso che non v'è alcun nesso di pregiudizialità tra i due procedimenti.

La pregiudizialità vale solo rispetto al processo penale, qualora l'addebito disciplinare abbia ad oggetto i medesimi fatti contestati in sede penale (art. 653 c.p.p. e Cass. Sezioni Unite 08.03.2006 n. 4893).

Di particolare rilievo sono poi comma 2 bis e 2 ter dell'art. 12 decreto legislativo n. 471/1997.

Il comma 2 bis individua l'Organo competente all'emanazione del provvedimento di sospensione che è, come detto, la Direzione Regionale dell'Agenzia delle Entrate competente per territorio in relazione al domicilio fiscale del contribuente.

La sospensione deve essere notificata, a pena di decadenza, entro sei mesi da quando è stata contestata la violazione.

Il comma 2 ter stabilisce che l'esecuzione e la verifica dell'effettivo adempimento delle sospensioni è effettuata dall'Agenzia delle Entrate, ovvero dalla Guardia di Finanza.

Va da sé che l'avvocato, colpito dal procedimento di sospensione, immediatamente debba astenersi dall'esercizio professionale per evitare di incorrere in una serie di gravi conseguenze; penali ai sensi dell'art. 348 c.p. (esercizio abuso della professione), disciplinari ai sensi dell'art. 21 del Codice Deontologico (divieto di attività professionale senza titolo) e civili (risarcimento del danno per il compimento di atti nulli).

Altro rilevante dovere è quello previsto dall'art. 25 del Codice Deontologico:

“L'avvocato deve consentire ai propri collaboratori di migliorare la preparazione professionale, compensandone la collaborazione in proporzione all'apporto ricevuto”.

Vediamo chi sono i collaboratori.

Non di certo i praticanti avvocati, ai quali il codice deontologico dedica il successivo art. 26 e neanche il personale dipendente atteso che il rapporto tra il personale e l'avvocato è regolato dal C.C.N.L. di categoria sia in relazione ai profili normativi che a quelli economici.

L'art. 56 del Codice, poi, intitolato “rapporto con i terzi” colloca specificamente il personale dipendente dell'avvocato tra i “terzi”.

Né lo sono i colleghi direttamente scelti ed incaricati dall'avvocato perché il loro rapporto è disciplinato dall'art. 30 del Codice Deontologico.

Detto questo, chi sono allora i collaboratori?

Sono gli avvocati di cui l'avvocato si avvale attraverso una collaborazione interna a carattere stabile ed esclusivo.

In altri termini, il Codice Deontologico ha già regolamentato un aspetto che dovrebbe essere affrontato nella riforma, ovvero l'introduzione della figura dell'avvocato “dipendente”.

Vediamo quali possono essere in via generale le collaborazioni nell'attuale quadro:

Il primo modello di collaborazione era costituito dall'associazione professionale regolata dall'art. 1 della legge 23 novembre 1939 n. 1815 ed era il modello più antico e quello più usato.

I patti erano rimessi alla volontà degli associati e solitamente venivano stipulati per atto pubblico o scrittura privata autenticata.

L'elemento essenziale era costituito dalla spendita della dizione “Studio Legale Associato” di guisa che i terzi ne avessero contezza. L'esercizio associato doveva essere notificato al Consiglio dell'Ordine. L'associazione poteva essere costituita anche tra avvocati ed altri professionisti, di solito commercialisti.

Il cliente aveva rapporti esclusivamente con l'avvocato incaricato e non con l'associazione.

L'art. 10, comma 11, della Legge di Stabilità ha abrogato la legge 23 novembre1939 n. 1815 a decorrere dal 1° gennaio 2012, data di entrata in vigore della Legge di Stabilità. Questo comporterà che le associazioni professionali dovranno cessare o trasformarsi secondo i modelli societari di cui vi parlerò.

Il secondo modello è costituito dalla società tra avvocati regolato dagli artt. 16 e segg. del decreto legislativo 21.02.2001 n. 96; la società va iscritta un una sezione speciale dell'Albo degli Avvocati.

Questo modello non ha avuto diffusione, come non ha avuto diffusione il terzo modello introdotto dal decreto Bersani n. 223/2006 che all'art. 2 ha abrogato qualsiasi divieto di fornire all'utenza servizi professionali di tipo interdisciplinari, con il limite della partecipazione ad una sola società da parte del professionista.

Il quarto modello è quello previsto dall'art. 10, commi da 3 a 8, della Legge di Stabilità ovvero società di capitali con compagine sociale aperta anche a soci non professionisti per prestazioni tecniche o per finalità di investimento.

Il problema che si pone è quello della fallibilità di queste società.

Punto di partenza è che l'avvocato, svolgendo una professione intellettuale regolamentata ai sensi degli artt. 2229 e seguenti del codice civile, non è un imprenditore e quindi non è soggetto alla procedura di fallimento come previsto dall'art. 2221 del codice civile.

Per quanto riguarda le società previste dal decreto legislativo 2 febbraio 2001 n. 96, l'art. 16, comma terzo, stabilisce espressamente che la società tra avvocati non è soggetta a fallimento.

Ed il comma quinto dello stesso articolo ribadisce la vigenza della legge 23 novembre 1939 n. 1815 per la costituzione di associazioni tra professionisti.

Nel comma secondo sempre dello stesso articolo è scritto che la società tra avvocati è regolata dalle norme del titolo II del decreto legislativo (n. 96/2001) e, per quanto non disposto, dalle norme che regolano la società in nome collettivo di cui al capo III del titolo V del libro V del codice civile.

Per quanto riguarda il decreto Bersani (decreto legge 6 luglio 2006 n. 223 convertito in legge 4 agosto 2006 n. 248), l'art. 2, comma 1 lettera c) si limita a stabilire che non v'è alcun divieto “di fornire all'utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di persone o associazioni tra professionisti, fermo restando che l'oggetto sociale relativo all'attività libero professionale deve essere esclusivo, che il medesimo professionista non può partecipare a più di una società e che la specifica prestazione deve essere resa da uno o più soci professionisti previamente indicati, sotto la propria personale responsabilità.”.

La norma, dunque, indica come forma associativa le associazioni regolate dalla legge 23 novembre 1939 n. 1815 e le società di persone regolate dal codice civile.

La differenza rispetto alle società regolate dal decreto legislativo n. 96/2001 è costituita dall'attività svolta, che può essere di natura interdisciplinare.

La norma nulla dice in ordine alla possibilità di fallimento delle società di persone, contrariamente a quanto previsto dall'art. 16 della legge 02.02.2001 n. 96.

Se, dunque, una società tra avvocati, regolata dalle disposizioni che disciplinano la società in nome collettivo, non è fallibile, non sarà neanche fallibile, per analogia ai sensi dell'art. 12 delle disposizioni della legge in generale, una società di persone tra professionisti di tipo interdisciplinare.

Anche perché sono soggetti a fallimento ai sensi dell'art. 2221 del codice civile gli imprenditori che esercitino un'attività commerciale ed il soggetto che esercita una professione intellettuale non è un imprenditore.

A meno che, come stabilisce l'art. 2238 del codice civile, l'esercizio della professione costituisca elemento di un'attività organizzata in forma di impresa ed in tal caso si applicano le disposizioni previste dall'art. 2082 e seguenti del libro V titolo II del codice civile, ossia le norme dedicate all'imprenditore e all'impresa.

E a meno che l'attività in concreto svolta dalla società non sia coerente con quella dell'oggetto sociale determinato dalla legge 96/2001 e dal decreto legge 223/2006.

Nel senso che se viene costituita una società tra avvocati o tra professionisti ma in effetti la stessa svolge attività, ad esempio, di costruzione, è di tutta evidenza come la società, al di là di ogni formalismo, sia assoggettata alla Legge Fallimentare e sempre in relazione all'art. 2238 del codice civile.

Le stesse considerazioni valgono per le società previste dalla legge si stabilità, ove si consideri che:

a) l'atto costitutivo deve prevedere l'esercizio in via esclusiva dell'attività professionale da parte dei soci;

b) la denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere l'indicazione di società tra professionisti.

La società, dunque, non è un soggetto imprenditoriale e come tale non è applicabile la legge fallimentare.

Tranne nel caso in cui l'attività in concreto svolta sia di tipo imprenditoriale e non già professionale.

A conferma si pone la previsione della possibilità di svolgere l'attività professionale associata anche mediante lo schema organizzativo delle società cooperative le quali, com'è noto, sono soggette a fallimento solo ove svolgano un'attività commerciale (art. 2545 terdecies cod. civ.); in caso di insolvenza le stesse sono sottoposte a liquidazione coatta amministrativa.

Ritengo che in questo tipo di società, in cui la presenza del socio di capitali sia maggioritaria o prevalente o significativa, il divieto di accaparramento della clientela, previsto dall'art. 19 del codice deontologico, possa subire un'attenuazione proprio in conseguenza delle finalità di lucro che il socio persegue in relazione all'investimento effettuato. Così come potrebbe subire, per tali ragioni, una compromissione il valore fondante dell'indipendenza.

Si vedrà come il regolamento, previsto dall'art. 10, comma decimo, della Legge di Stabilità, disciplinerà la materia.

* * *

Il quinto modello è quello non regolamentato e si estrinseca nella collaborazione tra avvocati il cui contenuto è rimesso alla libera determinazione delle parti e può essere il più vario ed il più complesso.

Può andare da una mera condivisione delle spese di studio, allo svolgimento di attività professionale in esclusiva per un avvocato.

L'art. 25 si riferisce a questi casi di collaborazione interna a carattere stabile perché usa il termine di “proprio collaboratore”, ponendo il duplice dovere di consentire la preparazione professionale ed il pagamento di un compenso secondo l'“apporto ricevuto”.

Il compenso è basato esclusivamente sulle pattuizioni inter partes.

Vi può essere anche una collaborazione tra colleghi dello stesso studio in relazione al singolo affare o a più affari, il cui contenuto è sempre rimesso alla libera determinazione delle parti.

Questo modello non regolamentato sfugge alle maglie dell'art. 2, quinto comma, del decreto legislativo 138/2011, in quanto solo ai modelli associativi regolamentati si applica la sanzione della sospensione per tutti gli associati.

Altro importante, anzi importantissimo dovere è quello previsto dall'art. 26 del Codice deontologico intitolato ai rapporti con i praticanti.

Ed invero le sorti del futuro avvocato dipendono essenzialmente dal praticantato eseguito.

Se la pratica è stata svolta secondo la regola deontologica, sicuramente sarà immesso sul mercato un professionista serio e scrupoloso.

Stabilisce la regola che:

“L'avvocato è tenuto verso i praticanti ad assicurare la effettività ed a favorire la proficuità della pratica forense al fine di consentire un'adeguata formazione”.

La regola è l'attuazione in sostanza dell'art. 1 del D.P.R. 101/1990 secondo il quale la pratica forense deve essere svolta con assiduità, diligenza, dignità, lealtà e riservatezza”. L'art. 26 pone, poi, tre canoni, il primo dei quali stabilisce che l'avvocato deve fornire al praticante un adeguato ambiente di lavoro, riconoscendo allo stesso, dopo un periodo iniziale, un compenso proporzionato all'apporto professionale ricevuto.

Il riconoscimento è rimesso alla valutazione dell'avvocato e costituisce un obbligo meramente morale.

Mentre per i collaboratori dello studio abbiamo visto che la regola deontologica pone il dovere di compensare.

Il decreto legge 138/2011, all'art. 3 comma 5° lettera c), ha posto a carico dell'avvocato, nella riforma dell'ordinamento, il dovere di corrispondere al praticante avvocato un equo compenso di natura indennitaria, commisurato al suo concreto apporto.

Questa disposizione è pericolosa, perché riconosce al praticante il diritto a ricevere l'equo compenso; questo sta a significare che il dovere dell'avvocato di corrispondere il compenso non ha più natura morale come dispone la regola deontologica, ma ha natura giuridica.

Il praticante, quindi, ben potrà ricorrere al Giudice del Lavoro ove non riceva alcun compenso o ritenga inappropriato il compenso ricevuto rispetto all'apporto dato.

Ed allora, l'apporto è quantitativo e/o qualitativo? E come si dimostra l'apporto?

Appare evidente come il praticantato potrebbe presentare delle insidie.

Potrebbe, però, anche accadere che gli avvocati non accolgano più praticanti presso gli studi e non vengano più immessi sul mercato giovani colleghi, con tutte le conseguenze immaginabili sui livelli occupazionali.

Anche perché la prima parte del quinto comma dell'art. 3 del D.L. 138/2011 espressamente conferma l'esame di stato previsto dall'art. 33 della Costituzione per l'accesso alle professioni regolamentate.

Di guisa che una brusca riduzione del numero dei praticanti, determinerà di riflesso una brusca riduzione del numero di giovani avvocati e così il risultato che si raggiungerà sarà l'esatto opposto di quello perseguito dal Governo.

Sull'art. 56, “rapporto con i terzi”, v'è poco da dire, atteso che tanto la regola quanto il canone sono estremamente chiari.

V'è solo da aggiungere che se l'avvocato ha il dovere di rivolgersi con correttezza e con rispetto nei confronti del personale ausiliario di giustizia, altrettanto deve fare il personale ausiliario di giustizia nei confronti dei signori avvocati, atteso che i casi di contrasto sono giornalieri.

L'art. 59 è anch'esso estremamente chiaro: “L'avvocato è tenuto a provvedere regolarmente all'adempimento della obbligazioni assunte nei confronti di terzi”.

E' comunque possibile distinguere tra obbligazioni inerenti l'esercizio professionale e quelle estranee all'esercizio professionale.

La distinzione discende dal fatto che il canone prevede la valutazione in sede disciplinare dell'inadempimento alle obbligazioni estranee all'esercizio professionale, quando per modalità e gravità, sia tale da compromettere la fiducia dei terzi nella capacità dell'avvocato di rispettare i propri doveri professionali.

Il limite è costituito dalla rilevanza civilistica dell'inadempimento, perché ove fosse configurabile la commissione di un reato (ad esempio appropriazione indebita) l'illecito contestabile sarebbe altro e ben più grave.

Viceversa le obbligazioni inerenti l'esercizio della professione determinano la consumazione dell'illecito automaticamente, senza cioè alcuna connotazione, come abbiamo visto per le obbligazioni estranee all'esercizio della professione.

Vediamo chi sono i terzi rispetto alle obbligazioni inerenti la professione.

Non la parte assistita o il cliente, non il COA territoriale, non il CNF, non la Cassa, non il Fisco, non i collaboratori dello studio, in quanto vi sono specifiche norme deontologiche che regolano questi rapporti.

Per terzi, dunque, è da intendersi il personale dipendente ed i fornitori in senso lato dello studio.

Da tenere, comunque, sempre presente l'art. 3 del codice deontologico che oggetto della valutazione disciplinare è il comportamento complessivo dell'incolpato.

Di guisa che se l'avvocato dimostra che non ha risorse, perché non ha guadagnato, è stato malato od altro, si dovrà disporre l'archiviazione della notizia.

* * *

Passiamo adesso alle altre obbligazioni previste dal D.L. 138/2011 che saranno inserite nella riforma dell'ordinamento.

L'art. 3, comma 5 lettera d) prevedeva l'obbligo di pattuire per iscritto il compenso all'atto del conferimento dell'incarico prendendo come riferimento le tariffe professionali nonché la possibilità di stipulare patti in deroga.

L'art. 10, comma 12°, della Legge di Stabilità ha soppresso il riferimento alle tariffe professionali nonché la possibilità di stipulare patti in deroga in quanto la contrattazione è libera.

Ritengo che la mancanza di pattuizione scritta dia la possibilità di svolgere l'azione di arricchimento senza         causa.

E' posto a carico del professionista l'ulteriore obbligo di informativa, di rendere noto al cliente il livello di complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni       utili come gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico.

L'obbligo è già presente nel Codice Deontologico all'art. 40 “obbligo di informazione”

L'ultima parte della norma indica i casi in cui si deve far riferimento alle tariffe professionali:

a) quando il committente è un ente pubblico e non c'è stata determinazione consensuale nel compenso;

b) nelle liquidazioni giudiziali;

c) nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse di terzi.

A mio avviso è riconducibile alla previsione il patrocinio a spese dello Stato.

Per il resto, avuto riguardo alla distinzione tra cliente (colui che conferisce l'incarico e corrisponde la parcella) e parte assistita (colui che riceve la prestazione professionale) qualunque incarico conferito configura la presenza del cliente e, quindi, l'obbligo di stipulare per iscritto il compenso.

L'art. 3, comma 5° lettera e) prevede l'obbligo per l'avvocato di stipulare idonea assicurazione per i rischi derivanti dall'esercizio professionale.

Le condizioni generali delle polizze assicurative possono essere negoziate, in regime di convenzione con i propri iscritti, dal CNF o dalla Cassa.

L'avvocato ha poi l'obbligo di informativa nei confronti del cliente, che nasce al momento dell'assunzione dell'incarico, in ordine agli estremi della polizza e del relativo massimale.

L'art. 3 comma 5° lettera g) prevede che la pubblicità informativa, avente ad oggetto l'attività, le specializzazioni, i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni è libera.

L'obbligo dell'avvocato è di rendere le informazioni trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche, non ingannevoli, né denigratorie.

Il Codice Deontologico già regola la materia con gli articoli 17 e 17 bis che sono di estrema chiarezza.

L'art. 3 comma 5° lettera b) prevede l'obbligo per il professionista di seguire percorsi di formazione continua permanente predisposti sulla base di appositi regolamenti emanati dai Consigli Nazionali. La violazione dell'obbligo di formazione continua determina un illecito disciplinare sanzionato dall'ordinamento professionale.

 

L'obbligo dell'avvocato è previsto dall'art. 6 del Regolamento sulla formazione continua, secondo il quale ciascun iscritto deve depositare al Consiglio dell'ordine una sintetica relazione che certifichi il percorso formativo seguito nell'anno precedente, indicando gli eventi formativi seguiti, anche mediante autocertificazione.

Costituiscono illecito disciplinare il mancato adempimento dell'obbligo formativo e la mancata o infedele certificazione del percorso formativo seguito.

La sanzione è commisurata alla gravità della violazione.

L'art. 6 del Regolamento si ricollega all'art. 13 del Codice Deontologico, e specificamente al canone secondo “E' dovere deontologico dell'avvocato quello di rispettare i regolamenti del Consiglio Nazionale Forense e del Consiglio dell'Ordine di appartenenza concernente gli obblighi e i programmi formativi”.

* * *

Altro obbligo di immediata attuazione contenuto nel decreto legge 138/2011 è quello posto dall'art. 1 ter comma 1, dopo aver introdotto alla lettera a) il calendario delle udienze nelle cause civili, alla lettera b) prevede un oscuro obbligo a carico dell'avvocato, che costituisce violazione disciplinare. Quest'obbligo sarebbe il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario da parte dell'avvocato.

Ma come può l'avvocato violare i termini? Non si presenta? Ne subirà le conseguenze. Non citerà i testimoni? Decadrà dalla prova. Non comunicherà alla parte assistita che avrebbe dovuto rendere l'interrogatorio? E' un suo problema.

L'unica possibilità potrebbe ravvisarsi nell'accordo nella causa tra il giudice e gli avvocati delle parti costituite di rinviare, senza alcuna giustificazione, la trattazione del giudizio; ma questo, come appare evidente, potrebbe essere un esempio scolastico, atteso che il codice di rito vieta i meri rinvii, tranne che si sia in presenza di giustificate ragioni (es. impossibilità del giudice, mancato rinvenimento del fascicolo, inagibilità del Tribunale, eventi straordinari ecc.).

 

 

Documento pubblicato su ForoEuropeo - il portale del giurista - www.foroeuropeo.it